Avevo voglia di vincere.

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Mi chiamo Peter, di cognome faccio Enjoy.
Enjoy, divertitevi. Questo sembra dirci Peter Sagan da Zilina quando pedala.
E in effetti enjoy è la parola magica, semplice, che il ciclismo sembra avere smarrivo. E che deve invece imparare a rimettersi in testa.
Divertitevi voi a casa, ma anche voi – azzurri su tutti – che pedalerete domenica ai Campionati del Mondo di Bergen.
Domenica infatti scoccherà l’ora iridata. A Bergen, nel cuore della Norvegia, andrà in scena la prova in linea maschile dei Mondiali Ciclismo 2017.
Sarà tutti contro Peter Sagan. Poco ma sicuro.
E quindi sarà tutti contro il divertimento. Perché Sagan questo è, o almeno era, speriamo se lo ricordi anche lui. Perché ne abbiamo un fottuto bisogno delle sue mascalzonate. La scorsa estate, al Tour, un po’ si era perso per strada. Un po’ lo avevano fatto perdere. Ora ha bisogno di tornare a far marachelle.
Intendiamoci, di nomi interessanti a contendersi il titolo a Bergen, ce ne sono tanti altri: non sto qui a snocciolarveli, ognuno avrà i suoi favoriti. Io non vi dico miei.
Tranne che farò il tifo, sfacciato, per la nazionale italiana di Cassani, che mi pare anche molto bene attrezzata quest’anno.
Ho voglia invece di raccontarvi la storia del primo titolo mondiale di Peter – “il guascone”. Quello di Richmond, Stati Uniti, nel settembre del 2015. Quando, senza squadra e senza freni, il nostro meraviglioso Peter Pan della pedivella mise a segno una vittoria straordinaria, poi bissata l’anno successivo ma in modalità più “normodotato”. Già, perché nel modo con cui vinse i mondiali Sagan nel 2015 c’è poco di “normale”, in pochi hanno vinto così, sfoderando una superiorità imbarazzante e una sicurezza nei propri mezzi degna di forse solo di un Eddy nostro, Merckx, il Maradona del ciclismo. E soprattutto Peter ci ha ricordato di come si esulta dopo un trionfo: giocando, ridendo, facendo i bambini. Via i musi lunghi.
In una parola, dicendoci ancora una volta che il ciclismo è prima di tutto gioco.
Ecco allora a voi, comunque vada domenica in quel di Bergen,  mr. Guascone, Peter Sagan.  Direttamente dal mio penultimo libro (dopo l’Olanda, di prossima pubblicazione anche in Germania per Piper) “Il carattere del ciclista”.
Enjoy.

PS: per chi fosse da quelle parti, domani, sabato 23 settembre, alle ore 16 sarò a parlare di “Storia e geografia del Giro d’Italia” (il mio ultimo libro) a Palazzo Orfini, a Foligno, in occasione de La Francescana. Amici umbri, siete avvisati.


Via, si parte!
Le prime sei ore di gara sono soporifere come un film d’essai slovacco, qualche schermaglia, qualche caduta, ma niente di più. Niente colori, niente emozioni. Nessuno si scopre, nessuno rischia, nessuno usa la fantasia. Tutto succede soltanto a tre chilometri dall’arrivo, nell’ultimo giro per le strade di questa città così monumentale. Qui c’è il Campidoglio più antico d’America e le bandiere a stelle e strisce riempiono ogni angolo. Non ci sarebbe da stupirsi se da qualche parte spuntasse là tra il pubblico Kevin Spacey, alias Frank Underwood di House of Cards. C’è un che di solenne nell’aria, si respira chiaramente un grande giorno. L’asfalto leggermente umido, l’aria frizzantina sono elementi che difficilmente si dimenticheranno. E allora succede che il piccolo ribelle che arrivava sempre secondo decide che per una volta vuole arrivare primo. Lo vuole fare però alla sua maniera, senza rinunciare alla sua indole ribelle e fantasiosa. E allora ecco un lampo di lucida follia, un gesto di rivolta in mezzo a una corsa per ragionieri, fatta di calcoli, equazioni e sguardi in tralice che non si trasformano in nulla di più.
Ci pensi tu, a tre chilometri dall’arrivo, a rimettere le cose a posto. Spezzi il ritmo con la tua innata leggerezza. Sull’ultimo muro tra le mattonelle traballanti del pavé all’improvviso prendi e vai via. “Assì non vinco mai sopra i 250 chilometri? Assì, sono un eterno secondo? State a vedere”, sembri dire a tutti.
Come Messi, dribbli gli avversari uno a uno e ti involi verso la porta in perfetta solitudine. Ingrani un rapporto duro, il deragliatore della tua Specialized fa un rumore secco e metallico assordante, gli altri, stravolti, si voltano: “Mica scatterà adesso questo qui?” paiono dirsi.
Ma tu sei già andato. Mancano due chilometri e mezzo alla fine, forse è troppo presto, ma tanto a te i calcoli non interessano e poi nessuno dei tuoi due compagni slovacchi ti seguirebbe. Tanto vale fare da solo. Mano a mano che si sale, allunghi il tuo vantaggio con rinnovata forza. Con un piccolo capolavoro di destrezza e spericolatezza affronti la discesina successiva, poi aumenti ancora la distanza tra te e il resto del gruppo. Ti alzi sui pedali e rilanci ancora, il leggero vantaggio si fa voragine. La tua tutina bianca rossa e blu – i colori della Slovacchia – si compatta tutta intorno al tuo corpo muscoloso. Un’ultima chiamata alle armi di tutte le tue energie.
Ma non è ancora fatta. Arriva una curva a ricordartelo, il traguardo non si vede ancora, sembra lontanissimo. Hai un attimo di esitazione, l’acido lattico ribolle su e giù lungo i tuoi muscoli, hai trascinato il tuo corpo oltre ogni limite, come mai avevi fatto prima. È una sensazione che qualunque grande ciclista prima o poi deve provare, se vuole la gloria. Un’agonia, di quelle che devi essere capace di sublimare in ebbrezza prima che fatica e paura abbiano il sopravvento su di te. E così tu fai.
L’ultimo chilometro lo percorri con una pedalata ovviamente meno brillante e quasi scomposta, a un certo punto perdi persino un pedale. La tacchetta sotto la suola della scarpa si è sganciata, ma è un attimo: clack e la rimetti al suo posto, agganciata e solidale con gli stantuffi della tua macchina perfetta. Recuperi a fatica il ritmo che avevi, e che forse non potevi tenere fino all’arrivo, ma lo recuperi. Vuoi questa dannata vittoria, la vedi vicina.
Per un attimo ripensi a tuo fratello, adesso là dietro chissà dove, e alla sua riluttanza a esultare quando vinceva. Capisci ora che la sua non era modestia o mancanza di verve, ma semplice consapevolezza di ciò che si stava compiendo, forza. Il gioco a volte deve farsi più serio di quel che si vorrebbe.
Ultimo chilometro, la fine sembra non arrivare, dietro si avverte il rumore dei nemici, il fumo di una mandria di bufali impazziti. Sono gli inseguitori che tentano di recuperare. C’è un uomo solo al comando, un furfante che ha appena fatto un colpo in banca. E dietro, la polizia che lo insegue, una carovana lanciata a tutta birra, cacciatori di taglie disposti a tutto pur di prenderlo. L’hai combinata grossa stavolta, lo sapevi. Ora è troppo tardi per scendere dalla giostra, non si può più dire “no, non volevo”. E se salti adesso, domani hai voglia a leggerli i giornali. Sei finito.
Là dietro, in mezzo a quel polverone, pronti ad ammanettarti ci sono, primi fra tutti, l’australiano Michael Matthews, tra i favoriti fino a ventiquattr’ore prima, e Ramunas Navardauskas, il lituano dal nome impronunciabile ma dalle gambe debordanti.
Ma è solo un effetto della ripresa TV che schiaccia la prospettiva prima dell’ultima curva, in realtà i poliziotti sono lontani mille miglia, persi nella scia supersonica del ladro. Tutti pesanti e lenti, come il commissario Basettoni, non hanno più l’età per inseguirti. “Provate a prendermi”, sembri dire tu mentre ti volti un’ultima volta, la più bella della tua vita. Stravolto appoggi le mani sul manubrio. Katarina, tua futura moglie, ha il cuore in gola, ma comincia a farsi largo tra la folla, vuole venirti a prendere e darti il bacio più lungo di sempre.
Ultimi quattro, tre, duecento metri. Cosa vuoi che siano duecento metri? Già, poi però ripensi a quanto possono essere crudeli anche cinquanta millimetri, come quelli di quel dannato righello nell’astuccio. E allora non ti volti, pieghi le braccia sul manubrio e spingi. Spingi quelle maledette pedivelle che sono diventate di marmo.
Cinquanta metri, ormai è fatta. Devi essere Peter Sagan fino in fondo: ricordati di esultare, come sai fare tu. Danzare, ridere, giocare sempre. La tua missione.
Stacchi le mani dal manubrio, allarghi le braccia e ti metti ritto. Finalmente disteso e rilassato, dopo sei ore e mezzo di fatica assurda. Passi sotto il traguardo quasi fosse stato tutto ovvio fin da principio: “Sono campione del mondo, qualcosa da dire?”
E poi succede che ti fermi. Vuoi fare un ultimo gioco con i tuoi amici: getti il caschetto e i guantini al pubblico e poi stringi la mano a tutti i tuoi avversari, nessuno escluso. Ognuno di loro è felice di essere stato invitato alla tua festa, ti battono tutti il cinque come in una sorta di terzo tempo ciclistico inventato da te oggi.
La bellezza di questo momento è tutta negli occhi del belga Tom Boonen, un veterano che ne ha vista di acqua sotto i ponti. È sudato fradicio e a pezzi, ma ha ancora il tempo per commuoversi quando ti guarda. Sembra abbia vinto lui. Sembra che abbiano vinto tutti. Oggi è davvero un giorno speciale, qualcuno ha riportato il gioco laddove l’avevano tolto.

(da “Il guascone: Peter Sagan” – Il Carattere del ciclista Utet 2016)