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Michele e Destino.
La Paura.
Non sono di buonumore, vi avverto.
Credo, per altro, che in questi giorni non lo sia nessuno. Nessuno cui stia a cuore il ciclismo o che anche semplicemente ami andare in bicicletta.
Mi viene da scrivere e da riflettere a fatica e tendo a vedere tutto nero. Poi cerco di pulire i vetri e vederci più chiaro. Che se no, mi dicono, si finisce per essere un tantino noiosi. Ma il fatto è che non sempre ci riesco.
Lunedì ho pedalato con un amico in Liguria (sveglia alle 5, partenza alle 6 in auto da Milano, rientro subito dopo pranzo, totale più 100 km e 2000 m. di dislivello). Nel viaggio di ritorno abbiamo parlato a lungo, in modo quasi febbrile, in preda alle endorfine certo, come al solito, ma anche a qualcos’altro. Qualcosa di brutto ma anche di difficilmente nascondibile a lungo per due ciclisti.
Insieme abbiano quasi tracciato un bilancio del nostro sport, della nostra grande passione, quella che appunto ci aveva fatto alzare, anche quel giorno, alle 5 del mattino. Anche se avremmo potuto, tranquillamente, starcene a letto fino alle 10 e poi magari uscire a bere un caffè e a comprare i giornali, forse più saggiamente.
Entrambi questa volta avevamo una strana sensazione. Ci guardavamo negli occhi, con i visi ancor accaldati dalla fatica, ma nessuno osava dire all’altro ciò che gli frullava davvero nella testa.
Finché uno dei due ha rotto il ghiaccio: ciò che ci accompagnava questa volta e “macchiava” il piacere della nostra uscita, era la paura. Nient’altro che lei. Pura e semplice paura.
Eravamo consapevoli cioè di avere corso un rischio. E ci domandavamo, questa più di altre volte, se valesse la pena continuare a correrlo. La domanda che nessun ciclista vorrebbe mai farsi.
La Salvezza.
Intendiamoci, tutto era andato bene: nessun’auto ci aveva tagliato la strada, nessuna buca ci aveva fatto perdere la traiettoria, nessuna goccia d’olio sull’asfalto ci aveva fatto sbandare. Eppure entrambi sentivamo che qualcosa era cambiato.
E che di quella paura, quella che chiunque da sabato scorso sente di più, non dobbiamo vergognarci. Anzi. Portiamola con noi.
Come gli attrezzi, le camere d’aria e le barrette energetiche. Fa parte dell’occorrente per andare in bici. Senza, si sta a casa.
Impariamo ad usarla e a non nasconderla sotto la sella, questa paura.
Avere paura è sano, aiuta a non averla.
Del resto, come diceva il poeta tedesco Hölderlin “là dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva”.
Così oggi ho scelto per voi un pezzo dal mio nuovo libro “Storia e geografia del Giro d’Italia” (in libreria da settimana scorsa) un po’ speciale.
È quello a cui sono più legato. L’ho scritto tutto in prima persona, guarda a caso, a differenza del resto.
È tratto dal capitolo 3, “Prati di Mezzanego”, dal nome della località che lo ha reso tristemente noto al ciclismo.
Correva l’anno 2011, e la tappa numero 3, la Reggio Emilia – Rapallo.
Il Tirreno era blu intenso quel giorno, e Wouter Weyland, ciclista belga della Leopard Trek, anche detto WW108 per via del suo numero di gara, correva con il vento in poppa. Esattamente come Michele.
Questo pezzo è dedicato a Giacomo, Tommaso, Anna Scarponi e ad Alizée e Anne Sophie Weylandt.
Il frusciare dei rami d’ulivo.
(…) WW 108 è contento, sente il vento nei capelli e il profumo del mare che si avvicina, il sole in cielo è alto e fa caldo. Un ultimo sforzo e poi sarà volata finale probabilmente. Si volta, sorride, poi non c’è più.
Il pedale urta violento contro l’ardesia e si spezza esattamente a metà, la bici carambola come una scheggia impazzita, piomba prima contro il muro di fronte e poi giù a valle. Sembra un tragico flipper. La testa del ciclista è la prima parte del corpo ad impattare. Una torsione rovinosa del collo, un crack secco alla base della scatola cranica. Si sente un orrendo rumore di ferraglia: è quello della bici che prosegue inerte la sua corsa, disarcionata, rigando l’asfalto. Poi silenzio.
Solo il gentile cinguettare degli uccellini e il frusciare leggero dei rami di ulivo al vento. Sopraggiunge un’ammiraglia, è costretta ad inchiodare per non investire il ragazzo. Si alza il fumo dalle ruote, l’autista impreca poi resta senza fiato. Il corpo di Wouter là davanti, la bici dall’altra parte.
L’intera carovana, che procedeva regolare in discesa, ha un sussulto improvviso. Una sorta di reazione a catena, tutti sono costretti a frenare. Auto, moto, biciclette.
È tutto un clangore e uno strillare di clacson: cosa diavolo è successo? Perché vi fermate?! Oddio, no!
Dalla radio hanno chiamato il 118. Arriverà a momenti.
I compagni vedono WW 108 riverso a terra, qualcuno capisce, qualcun altro fa finta di no. Come soldati al fronte, proseguono. Per piangere ci sarà tempo dopo, se sarà il caso.
Mi piace pensare che Wouter non abbia fatto in tempo ad accorgersi di niente. “Mi volto, mi rigiro, ciao non ci sono più, che fate adesso con quelle facce? Io non ho sentito niente”.
La luce che si spegne in un attimo. Come quando stacchi la corrente in casa prima di partire per le vacanze. D’improvviso tutta l’energia che c’era nell’appartamento si arresta. Si ferma il frigorifero, si spegne la caldaia, il computer e i dispositivi elettronici, lo stereo, persino il campanello della porta smette di fare il suo dovere. Basta un attimo. Basta un clic. E la vita che c’era non c’è più (…)
Si dice che alla bionda Anne Sophie non abbiano avuto il coraggio di dire niente fino all’ultimo. Il telefono, mentre lei vede tutto da casa in diretta, resta muto. Un silenzio assordante.
Forse aspettano di essere certi al 100%. Sai mai che il miracolo possa ancora accadere. “Lo abbiamo visto tante volte al Giro” commenta speranzoso Beppe Conti in diretta dagli studi RAI. Ma è un ottimismo che non convince nessuno. Tutti hanno capito. Bastava guardare.
Dopo un’ora – la più lunga della sua vita – il telefono di Anne Sophie squilla. Wouter non c’è più, le dicono. Meglio fare i bagagli in fretta e partire, Rapallo l’aspetta.
Lei allora, per un attimo, rivede tutta la sequenza delle immagini di poco prima. Rivede quel dannato elicottero che svolazza sopra gli ulivi e i fitti faggeti senza trovare un pertugio che sia uno. Bianco e rosso, l’apparecchio volteggia in cielo nervoso, isterico, tentando in vano di atterrare da qualche cazzo di parte, là in mezzo alla terra tutta terrazze della Liguria. Le si piantano davanti al viso le immagini crude e macabre del corpo di suo marito esanime a terra, quella faccia tanto familiare ora improvvisamente irriconoscibile. Rivede le forbici dei soccorritori che tagliano incerte le cinghiette del casco azzurro e bianco, cercando di non muovergli la testa, la bombola dell’ossigeno che si accartoccia sulla sua bocca schiacciata con impazienza dalle dita di un infermiere. Tutto inutile (…)
Tyler Farrar è un ciclista americano del team Garmin, uno sprinter, è un amico fraterno di Wouter, assieme passavano il tempo a prendersi in giro. Soltanto stamattina a colazione Tyler aveva fatto una proposta irripetibile all’amico: chi dei due sarebbe arrivato ultimo pagava da bere. Una piccola marachella tra ciclisti, di nascosto dalle diete ferree imposte dai direttori sportivi. Wouter, ovviamente, gli aveva stretto la mano. Affare fatto. Tanto era sicuro di vincerla lui quella piccola sfida tra amici.
Adesso Tyler è rimasto da solo. L’amico se n’è andato. Si appoggia alla fiancata dell’autobus, così nero e lucido ora sembra un carro funebre. Ha aspettato pazientemente che i compagni di Wouter scaricassero le valigie e si allontanassero silenziosi verso l’hotel. Ora può lasciarsi andare, finalmente. Indossa occhialoni neri e cappellino ben calato sugli occhi, ma le spalle, così grosse e possenti, tradiscono scosse squassanti.
Domani, ha deciso, non partirà. Tutti a casa, tutto finito.
Mi fermo un attimo davanti alla targa. È piccola, discreta, incastonata nel muro tra le pietre di ardesia, scolpite in alto ci sono persino due piccole mani che sembrano tenerla sollevata. In basso, a sinistra, il busto di Wouter, di un colore leggermente diverso dal resto. Fino a poco tempo fa, qui di fianco c’era anche una bella foto lasciata da qualcuno: WW 108 a bordo della sua Trek. Alto, biondo, occhiali da sole, caschetto in testa. Sfrecciava che era una meraviglia.
Da “Storia e geografia del Giro d’Italia” – Utet 2017