Tag
L’Astronave dei Sei Giorni.
Era là: tra via Tesio Federico e via Patroclo, schiaffato di fronte allo Stadio di San Siro. Non era famoso come il Vigorelli. Ma era l’inizio di una favola interstellare che non poteva non finire nel mio libro.
Nel 1985, un anno esatto dopo il nonno Bruno, la neve si portò via anche il Palasport di Milano. Detto anche “Palazzone”. Un edificio avveniristico, una meraviglia architettonica, fiore all’occhiello di tutta la città. Ancora oggi sarebbe considerato futuristico, inimmaginabile, fors’anche scandaloso. Comunque: slanciato nel futuro.
Lo vedevo sempre quando tornavo a casa da nuoto, il martedì, con la sua sagoma inconfondibile. Pareva un’astronave avvolta nelle nebbie meneghine, atterrata là per caso. O forse, più semplicemente, per tenere compagnia a noi bambini. Le sue luci si flettevano nella spessa coltre di bruma, a quei tempi ancora fitta, non come oggi che la nebbia da Milano è quasi sparita come il ghiaccio dalla Marmolada. Per trovarla devi avventurarti in bicicletta, in pieno dicembre, lungo il Naviglio Grande, per diversi chilometri fuori dal centro cittadino. Cosa che per altro io faccio regolarmente nelle mie sessioni invernali di allenamento: pianura con rapporto agile. Non vi dico l’umido e il freddo nelle ossa con cui torno a casa. Del resto, quando si è magri, al freddo non c’è rimedio.
A nuoto, da bambino, ci andavo il martedì pomeriggio. Mi ci veniva a prendere quasi sempre lui, il nonno Bruno. Uscivo dalla piscina avvolto in uno stato vaporoso, fisico e d’animo: mi sentivo bene, ma come stordito, distante dalla dimensione reale che solo un’ora prima mi era sembrata così presente e salda. Pensavo, insomma, di esser sulla luna e la cosa non mi dispiaceva affatto. Mi sedevo comodo sul sedile posteriore. Lo spettacolo poteva avere inizio: “Endorfine: prima esperienza”.
Non parlavo, guardavo fuori dal finestrino che si appannava impastandosi insieme alla nebbia in una coltre che mi sembrava uniforme. Gli occhi madidi di cloro e la faccia sbattuta da una nuotata con i fiocchi: nonostante i miei soli nove anni, grazie alle mie discrete doti di fondo, mi avevano messo in vasca con i “grandi”. Quelli di quindici, sedici anni. Mi sparavo in poco meno di tre quarti d’ora qualcosa come ottanta vasche. Due chilometri esatti, avanti e indietro, per una piscina sotterranea lunga venticinque metri. Mi avevano anche proposto per l’agonistica. Io però mi ritrassi subito, spaventato: o forse sapevo già che il mio destino non erano le corsie clorose dei palazzetti coperti, ma l’aria rarefatta dei passi alpini.
Il palazzetto dello Sport di Milano o “Palazzone” come veniva chiamato con rispetto e timore dai milanesi, io lo rimiravo dietro la lente deformante del cloro e dei finestrini appannati. Era un’arena coperta tra le più grandi al mondo: diciottomila posti a sedere. Roba da far invidia agli stadi a stelle e strisce dell’NBA. Ma la sua peculiarità, ciò che lo rendeva unico, non era tanto la sua capienza, bensì la sua forma. Surreale, onirica, per me ancora oggi uno degli edifici più belli mai visti a Milano.
Era a pianta circolare e aveva un profilo a doppia curvatura: a sella di cavallo. Un’enorme ovale con il tetto ricurvo verso l’interno, ahimè: quello fu il suo tallone d’Achille. Ma allora era ancora ben saldo, e magnetico come non mai: era la mia astronave atterrata non si sa come a pochi metri dallo stadio di San Siro. Doveva portarmi via.
L’impianto, una scultura futurista degna del Centre Pompidou di Parigi, tutto rosso e grigio, era stato realizzato per ospitare diverse discipline sportive nella capitale morale d’Italia: dall’atletica leggera, al basket, al ciclismo su pista. Oltre che altri avvenimenti dello spettacolo: qui ci vidi il circo russo e nell’85, l’anno maledetto, era previsto il primo concerto italiano degli U2.
Insomma il “Palazzone” era proprio un palazzone.
Bello, grosso, invincibile. Come il Titanic. E infatti, come il Titanic, affondò un pomeriggio di gennaio, in modo fragoroso e irreparabile. Le cose grandiose sembra non conoscano mezze misure.
Invece che un iceberg, il Palazzone andò a sbattere contro un’eccezionale nevicata. Milano quell’anno venne presa di mira da una perturbazione nevosa di rara e, forse, irripetibile portata. Caddero qualcosa come ottanta-cento centimetri di neve in pochi giorni. Un metro. Nemmeno in Val Badia. Voi capite che un tetto come quello del Palazzone, che era il contrario esatto di una baita di montagna, non poteva che collassare: la copertura della struttura, spiovendo verso l’interno, finiva per raccogliere, anziché disperderla, tutta la neve. Si stimava un peso di oltre ottocento tonnellate. Di più: la concentrava al centro, aumentandone, se possibile, la pressione e il peso. La tensostruttura in cavi di acciaio che reggeva il manto di copertura subì un dissesto improvviso, che comportò l’abbassamento del tetto di alcuni pericolosi metri. Praticamente: patatrac! Il tetto venne giù sotto il peso della neve come la foglia di un albero.
Il Palazzone rimase poi ingloriosamente abbandonato al degrado per anni, prima di essere demolito. Non ho mai capito perché. Senza nessuno che se ne occupasse o, men che meno, tentasse di recuperarlo. Una enorme balena spiaggiata: incapace di tornare a nuotare. Fu demolito nell’88.
Ci rimasi malissimo: la mia astronave non c’era più.
Lì dentro, non ci avevo visto solo il circo russo, ma anche la mia prima gara di ciclismo. E non una gara di ciclismo qualsiasi: la mia prima, e tutt’ora unica, corsa “indoor”. Al coperto, infatti, non ne ho più viste. Del resto, oggi, è praticamente impossibile.
Sotto un tetto, dovete sapere, il ciclismo diventa tutto un altro sport. Di più: tutto un altro spettacolo. Da sufi che girano in tondo, su una pista in legno, con curve paraboliche. Lanciati a velocità estreme, come biglie impazzite, su biciclette senza freni. Come quella con cui Francesco Moser batté il record dell’ora a Città del Messico nel 1984: quella bici aveva addirittura le ruote “lenticolari”. Ruote cioè con i cerchi senza raggi, tutte piene: due dischi perfetti. Da far suonare rigorosamente su pista. Questo per sfruttare al massimo la forza dell’aria e non perdere nemmeno una goccia dell’inerzia aerodinamica prodotta dal movimento stantuffato delle gambe. Praticamente un proiettile lanciato contro il vento.
Sì, nel velodromo, e quello del Palasport era un velodromo coperto, si correva solo con bici da pista appunto: senza marce cioè e, soprattutto, senza ruota libera. Vale a dire con il mozzo e il pignone della ruota posteriore uniti, affrancati, saldati. Praticamente: inseparabili. In pratica i pedali girano sempre, non si può mai smettere di pedalare. Si può solo imprimere più forza o rallentare con le gambe, fino a fermarsi. Del resto, in pista devi solo andare veloce e non fermarti mai. Come fece Moser nel velodromo di Città del Messico.
Oggi, tra le mie specialissime, ne annovero anche una “scatto fisso”: cioè una bici da pista, con il mozzo posteriore fissato al pignone, senza ruota libera. Secondo molti una scelta pericolosa, visto che la utilizzo prevalentemente in città per gli spostamenti quotidiani. Proprio per questo motivo, però, io ci ho fatto aggiungere alcuni piccoli accorgimenti fondamentali: innanzitutto un freno, quello anteriore, per gli stop improvvisi; poi ho fatto sostituire il manubrio da corsa con uno dritto e stretto; infine ho montato sulle due ruote dei copertoncini da 28 millimetri. Più spessi e resistenti, e dunque più difficili da forare, rispetto a quelli classici da corsa, che sono da 23. In questo modo, quello che era un vecchio telaio da pista in acciaio degli anni Sessanta, è rinato in una bici da città. Così, senza smettere di pedalare, con la ruota fissa, come Moser a Città del Messico, mi sposto ogni giorno per le vie di Milano. Ho trasformato anche il tragitto casa-lavoro in un piccolo allenamento: battendo giorno dopo giorno i miei record dell’ora.
Negli anni Ottanta il ciclismo su pista, a differenza di oggi, era ancora molto in voga. In tutto il mondo. C’erano velodromi sparsi dappertutto: Londra, Milano, Parigi, Berlino, Città del Messico, New York. Erano templi consacrati al parquet con curve paraboliche mozzafiato. Non c’erano soltanto il Giro d’Italia o il Tour de France, insomma. Per quanto, parere personale: questi ultimi mille volte più affascinanti ed epici. No, c’era anche un ciclismo diverso, oggi dimenticato e molto meno praticato, e allora invece ancora in stato di grazia. Quello del record dell’ora, ma soprattutto, per me, quello della mitica “Sei Giorni”. Altra gara su pista della durata, appunto, di sei giorni.
I corridori, nell’arco di quei sei giorni, dovevano gareggiare a coppie, sfidandosi, ogni giorno, in una serie di specialità diverse. Si passava dal funambolico “chilometro lanciato”, alla corsa a punti, a quella ad eliminazione. Ma soprattutto a lei: la gara più importante, e più lunga, di tutte. Quella decisiva: l’”Americana”. L’Americana consisteva in 50 km da fare lanciati, a tutta birra: la si faceva sempre alla fine di ciascuno dei sei giorni. Quando si era belli stracchi e con le gambe come due frullati di acido lattico.
Era quella, d’altra parte, che contava di più ai fini della classifica generale ed era anche quella più spettacolare da vedere. Ovviamente. Nell’Americana, i corridori se le davano di santa ragione: sorpassi, controsorpassi, manovre avventurose, magari anche qualche carambola. Alla fine, c’era sempre polemica: “hai fatto un soprasso da incosciente, potevamo romperci l’osso del collo!”
Praticamente un Gran Premio di Formula Uno a pedali. (…)