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Gambe rubate all’agricoltura.
Quante volte, o voi, piccoli e leggeri scalatori vi siete accodati a un mastino grande e grosso per lasciarvi trasportare nella sua scia, lungo un tratto di pianura controvento?
Oggi, vi propongo dal mio libro in uscita nel 2014 per Fabbri, un pezzo che mi è particolarmente caro. Probabilmente per l’ammirazione e, lo ammetto, un po’ anche per l’invidia che provo per questi divoratori di pianure: passisti che potrebbero fare anche 200 km così, a 45 all’ora. Come fosse bere un chinotto.
Del resto, se non esistessero loro, per noi gracili scalatori, sarebbe finita.
Buona lettura.
(…) La pianura invece è il terreno adatto a chi è pesante e muscoloso, a chi ha più potenza e si oppone meglio al vento e all’aria. Non per niente, ogni volta che ne trovo uno in strada, lo raggiungo e mi ci incollo dietro. Lì, nella sua scia, mi sento protetto come in un rassicurante ventre materno. Da quella scia che taglia l’aria mi lascio piacevolmente risucchiare e trasportare. E più è grosso, più so che mi trascinerà dietro di sé fino al traguardo, quasi fossi su un calesse. Piccoli trucchi da ciclisti.
Anche i cosiddetti “passisti” vanno bene come trascinatori: di stazza media, di solito si aggirano attorno ai settanta chili per uno e ottanta di altezza. Se la cavano piuttosto bene quando c’è da spingere il “rapportone”, la moltiplica di cinquanta denti che si usa principalmente nei tratti pianeggianti.
Ma i miei preferiti, in queste circostanze, restano quelli più grossi come quel tedescone che vedo ora là davanti. Un bell’esemplare di bisonte da pianura, che non mi devo lasciar scappare. Sono quasi sempre nordici i ciclisti da pianura: belgi, olandesi, tedeschi, austriaci. Madre natura li ha dotati di fisici a metà tra l’ariano e l’alcolista. Sono gigantesche montagne umane, spesso sovrappeso: la bici quasi scompare sotto di loro, schiacciata da quella stazza da transatlantici, e ti chiedi come faccia a reggerli. Una volta mi è persino capitato di trovarne uno, un fiammingo, che diceva di pesare esattamente il doppio di me: centodieci chili. Queste locomotive umane, abituate alle strade tutto pavé e vento in faccia del nord, le puoi mettere davanti a tirare anche per cento chilometri che loro nemmeno si voltano. Vanno avanti in trance. Non chiedono il cambio, non hanno mai un cedimento, mai un tentennamento, mai una crisi. Non li ho mai visti in faccia, per ovvi motivi, dato che sto sempre dietro, ma posso scommettere che hanno gli occhi sbarrati, assenti, ipnotizzati dall’asfalto che divorano. Chilometro dopo chilometro. Io li chiamo “locomotive da pianura”. Pedalano, credo, avvolti da una sorta di autismo atletico: il mondo attorno a loro, i compagni di squadra, gli avversari scompaiono. Questi giganti, quando vedono la pianura, sono posseduti dalla pedivella: devono pedalare quasi fosse una missione irrinunciabile, le loro gambe girano come stantuffi meccanici avviati dal motore del cuore. Senza sosta. Credo non si fermino nemmeno per bisogni fisiologici: non una goccia di pipì che si una. Bartali me lo immagino più o meno uno così: possente, robusto, estremamente generoso. Mangiatore di chilometri lunghe distanze, salvezza per centinaia di trenini di ciclisti scalatori anoressici. Coppi incluso. Poi in salita, magari, le parti si invertivano.
A volte, dopo chilometri e chilometri, questi bestioni magari si voltano indietro: così tanto per. E magari si accorgono che il gruppo che trainavano dietro di sé non li ha seguiti, vittima della loro potenza inaudita.
Ora che ci penso, devo stare attento: questo tedescone con i capelli lunghi e l’elmetto da guerriero “mena” davvero come una locomotiva. Rischio di non riuscire a la tenergli la ruota.
Ah, e come se non bastasse, mentre lui aumenta la velocità, mettendo a dura prova i miei battiti cardiaci, il vento ci soffia tragicamente contro. Con tutta la sua maledetta forza. Del resto, avete mai trovato vento a favore in bicicletta, in pianura? È una legge murphyniana: in pianura, il vento è sempre contro.
Dopo venti chilometri, la montagna umana si sposta a sinistra, chiede il cambio. Oddio, sarò in grado di darglielo senza far crollare clamorosamente la velocità media?
Indurisco il rapporto di un dente, mi alzo su pedali, scatto a tirare: è il mio turno. (…)