Gavia88.

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No, non è un nickname da adolescente. È la storia più straordinaria che forse io conosca. Quella di una banana a duemilaseicento metri di quota. Inauguro così, con un frutto, la “Ciclofficina“: una serie di microanticipazioni-riflessioni-metariflessioni sul mio libro in uscita nel 2014.
Colgo l’occasione per ringraziare Marco Saligari, amico divenuto ben presto fraterno, per avermi portato a 2.600 di quota con le sue parole.

Marco Saligari nel 1988 correva per la Ariostea. Quando, di fronte a un onesto bicchiere di vino in una tranquilla serata in Maremma, dove è in ritiro con la squadra di cui oggi è direttore sportivo, gli chiedo di raccontarmi del mitico “Gavia 88”, improvvisamente si rabbuia. Come avessi chiesto a un sopravvissuto di raccontarmi la tragedia del Vajont.

Eppure mi accorgo che ha voglia di parlare, che di storie e aneddoti ne avrebbe a bizzeffe su quel giorno. E così lo incalzo: gli offro un altro bicchiere, lo faccio parlare. I suoi ragazzi tanto ormai sono in branda, a dormire come bimbi: domani hanno in programma cinque ore di allenamento per le colline toscane. Marco mi dice allora che potrebbe farmi i nomi e i cognomi, ma non me li fa, di tutti coloro che senza pensarci su sono saliti a scaldarsi sull’unico pulmino riuscito ad arrivare in cima. Era un pulmino verde della “Seven Up”, ricorda: una gazzosa dolce e piacevole da bere che oggi non è più in commercio. Sul pulmino verde della “Seven Up” salgono un manipolo di ciclisti sfatti dal freddo e si fanno portare fino a valle, per poi risalire in bici per gli ultimi chilometri ripresi dalla tv, fino all’arrivo, e nascondere la vergogna. Tanto, in cima, con quella bufera, non c’erano telecamere, non c’erano elicotteri Rai a testimoniare: era una condizione estrema di uomini contro la furia della natura. Come marinai in mezzo a una tempesta perfetta. Qualcosa di ancestrale anche qui. Sopra i duemila metri, mi convinco, succedono solo cose primordiali. Nel bene come nel male.

Saligari butta giù il bicchiere, ma i nomi e i cognomi alla fine non me li fa. Mi racconta invece la storia di una banana. Una banana magica, diversa dalle altre, che non si dimenticherà mai più.

Poco prima della vetta, stremato dai crampi e dal gelo, non riesce a parlare nemmeno per chiedere cibo. Il rifornimento volante è posto al passo: deve mangiare, cercare di reintegrare le numerose calorie in più che il freddo ti succhia come un parassita mentre pedali. Ma non riesce ad aprire bocca. L’unica cosa che può fare, allora, è agguantare una banana al volo, che qualcuno gli passa. Le mani sono tumefatte, con un principio di congelamento degno di un alpinista sul K2. La neve le ricopre come fossero massi inermi. Già, e adesso: come si fa a mangiare la banana? Di più: come si fa a sbucciarla?

Semplice: non la si sbuccia. Saligari prende il frutto, abituato, ironia della sorte, a crescere solo in paesi caldi, e lo manda giù così com’è. Buccia inclusa. Oggi dice che non ne ricorda bene il sapore, ma ha invece in mente, chiara in testa, la discesa da quei duemilaseicentocinquanta metri di altezza: la strada non c’è più. Coperta dalla neve, non si vede, non ne si scorge nemmeno l’ombra. Per spiegarmi meglio la sensazione visiva provata, mi mette sotto gli occhi un tovagliolo bianco: “vedevi solo questo, chiaro?”. Chiarissimo.

Appena percettibili per terra, mi dice, solo le orme, le uniche umane ed amiche, delle ruote dei ciclisti che lo precedevano nella discesa. Marco non ha scelta: si getta nella bufera e pensa. Pensa a tutto: alla sua famiglia, ai suoi amici, alle persone che gli hanno voluto bene. Sa che potrebbe anche non tornare, vuole ricordarseli tutti, uno a uno: come un soldato in guerra. Sa che quella picchiata a fari spenti, con lo strapiombo di fianco, potrebbe essergli fatale. Se cadi qui, mi dice e un brivido mi percorre la schiena, chi più ti viene a prendere?

A volte penso che i ciclisti siano davvero come i soldati, a proposito di indiani: le condizioni estreme possono trasformarli in uomini allo stato primordiale. Come i militi sul Carso nel primo conflitto mondiale: pronti a morire in trincea, ma anche pronti ad attaccarsi a tutto pur di sopravvivere. Anche a una banana mangiata con la buccia.

L’ho fatta ovviamente anche io quella lunga discesa dal Passo Gavia a Bormio, passando per Santa Caterina in Valfurva. Era una splendida giornata di sole, esattamente come oggi: in cima al passo ho mangiato anche io una banana. Però ho tolto la buccia, con tutta calma. Mi sono guardato persino attorno per ammirare quella meravigliosa ed estrema inospitalità: il ghiacciaio dell’Adamello in lontananza, le rocce tetre e severe dietro di me, il piccolo laghetto che si incontra appena dopo lo scollinamento, quasi sempre ghiacciato. Anche d’estate.

Ho ascoltato il vento, freddo, sferzare la terra. Ho potuto solo immaginare cosa doveva essere quello stesso vento con la neve e venti gradi in meno. Poi ho alzato il bavero della mantellina, quasi mi fossi sentito lì in quel momento, ho indossato un paio di guanti leggeri, ho agganciato i pedali e ho affrontato la lunga discesa fino a Bormio.

I duemila metri possono essere buoni, ma anche estremamente cattivi. Perfidi.