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Il più cattivo di tutti.
Una storia di Ubris, pagaiate in testa e bugie imperdonabili .
Siamo a metà strada tra il Giro d’Italia, vinto da Nibali, e il Tour de France.
Quel momento di interregno, dove, tra Giro del Deflinato, Tour de Suisse, e allenamenti in altura (Vincenzo nostro è stato avvistato settimana scorsa sulle Dolomiti), ci si avvicina alla “Grande Boucle”. L’appuntamento che tutti aspettano, la Champions League dei ciclisti e degli appassionati di ciclismo. Quest’anno ci sarà la crème de la crème: Chris Froome, Alberto Contador, Nairo Quintana, e i nostri Fabio Aru e Vincenzo Nibali.
Non ce ne voglia il nostro Giro, ma il Tour de France continua ad essere la corsa più ambita e desiderata dai pro.
Oggi parliamo di uno che correva tutto l’anno solo in funzione di lei. L’amava alla follia, e con il tempo, dopo l’iniziale diffidenza – era americano – riuscì a farsi amare anche da loro. Dai Francesi, quegli sciovinisti snob che hanno sempre mal digerito ciclisti altrui. Figurarsi un americano.
Eppure questo era talmente cotto del Tour de France e soltanto del Tour de France, da vendere l’anima al diavolo. Il suo sogno, intriso di ubris, la tracotanza di cui talvolta si macchiavano gli eroi omerici – voler essere forti e potenti come gli dei -, era vincerlo più di 5 volte.
Più di Anquetil, più di Merckx, più di Hinault e più Indurain. Lo vinse non 6, ma 7 volte.
Il ragazzotto veniva dal Texas, cresciuto da un patrigno modello sergente Hartman di “Full Metal Jacket”. Per un concentrato di educazione militare, pagaiate in testa quando deludeva e istigazione bella e buona alla prepotenza. “Fotti gli altri e umiliali, sempre, ragazzo. Il resto sono chiacchiere”.
Stregò il mondo con la sua storia unica e folle, ma aveva clamorosamente mentito. E quando uno mente, soprattutto a un popolo come quello americano, non c’è più nulla che possa salvarlo. Vero Clinton?
Nemmeno una confessione, per altro poco sincera, poco sentita. Forse persino bugiarda anche quella.
Signore e signori, da “Il Carattere del ciclista”, ecco a voi il più cattivo di tutti, lo lo “spaccone”, Lance Armstrong.
Hai sempre avuto bisogno di strafare, di dimostrare al mondo che tu eri il più forte. Fin da quando eri piccolo e il tuo patrigno Terry ti accompagnava alle gare di triathlon: eri il più sbruffone di tutti, prendevi in giro i più scarsi, li irridevi. Non solo dovevi vincere, dovevi infierire sugli “inferiori”, i pappamolla, gli smidollati, quelli che erano rimasti indietro perché non avevano sputato sangue, e non avevano avuto coraggio come te. Dal tuo punto di vista erano degli inetti.
Risultato: ti odiavano tutti, ma sempre con una certa soggezione. E a te questo piaceva, il potere ti ha sempre regalato enormi soddisfazioni.
Terry, arrogante patrigno di quelli che si cerca sempre di evitare alle gare scolastiche, una volta finisce persino per scommette con il padre di un tuo compagno: “Il mio Lance annienterà il suo Tom, si dia pace”.
Quella volta ovviamente tu non ti limiti a battere il povero ragazzo, lo sbricioli, lo irridi, lo trascini appeso al tuo carro del vincitore come Achille con Ettore. Scavi una pozza nera infinta tra te e lui. Farai sempre così, con tutti i tuoi avversari. Da Zülle a Ulrich, da Pantani a Beloki.
Quella volta Terry sogghigna mentre esci dalla piscina, è fiero di te. Il ragazzo è venuto su proprio come voleva lui. Forte, stronzo e cattivo al punto giusto. E pazienza se gli daranno dello spaccone, fa parte del gioco. Lo sopporterà.
Tuo padre, quello vero, tu non l’hai mai conosciuto. La mamma lo lasciò quando non avevi ancora tre anni, e lui, per tutta risposta, non si è mai più fatto vedere. Tu per lui eri nient’altro che un capitolo chiuso, il peggiore della sua vita.
E allora eccoti là con Terry, che ti accompagna a ogni gara. Dalla più futile alla più importante.
“Non sei mio padre”, gli dici quando ti sgrida, ma lui, cresciuto con la disciplina militare nel sangue, ti picchia con una vecchia pagaia di legno. “Piegare la testa è da deboli, ragazzo, quando lo imparerai?”
Il tuo carattere si sta formando in quegli anni, forte e spietato. Il sergente Hartman – Terry ha compiuto la missione.
Tour de France 1999, ottantaseiesima edizione. Il tuo grande ritorno.Già dal cronoprologo si capisce che aria tira: butti giù tutti in un colpo solo, imponendo un distacco impressionante. Vai forte contro il tempo, si sapeva, ma nessuno immaginava così tanto, soprattutto dopo quello cha hai passato su un letto di ospedale. E così, anche se perdi presto la maglia gialla nelle tappe successive, te la vai a riprendere di prepotenza poco dopo a Metz, in un’altra tappa a cronometro, la seconda in programma. Il giorno seguente la consacri persino in montagna, al Sestriere. Cose da pazzi. Vai forte dappertutto, c’è poco da fare. I giornalisti di tutto il mondo sono in visibilio. Il miracolo dell’uomo tornato vivo dal viaggio all’Ade sembra compiuto. Il ritorno alla vita di Lance Armstrong è sulla bocca di tutti. Il Tour de France, il primo di una lunga serie, è tuo. Nella crono finale al Futurscope infili la terza vittoria di fila contro il tempo: è l’apoteosi. Gli avversari inesistenti, spariti, sbriciolati come il povero Tom tanti anni fa laggiù in una piscina del Texas: lo svizzero Alex Zülle è sette minuti, lo spagnolo Fernando Escartìn addirittura oltre i dieci. Una follia. Qualcosa di inimmaginabile, a pensarci bene, per uno che, fino a un anno fa, era più di là che di qua.(…)
Leggi la versione integrale di “Lo spaccone: Lance Armstrong”, da Il carattere del ciclista UTET