Panta rei.

 

Ritratto di Galibier con ciclista.

Luglio '98. E caddi nella pozione magica.

Tra poco più di due settimane, domenica 24 maggio per la precisione, sarò in un posto che non è un posto come un altro. 
Ho evitato finora di parlare, per risparmiarvi chili di melassa mielosa o etti di lacrimogena retorica, del padrone di casa delle salite. 
Ma un pellegrinaggio a Cesenatico, val bene una messa.
Era l’estate del 1998. 
Anche chi non aveva mai seguito quello strano sport che non era il calcio, palpitava. 
Ricordo solo l’acqua. Prima di tutto l’acqua. Che cadeva a catinelle. Il freddo, il fumo, i torrenti che colavano a picco dal Col du Galibier. Massiccio infangato, sgretolato dalla tempesta. 
Così nascono gli eroi: non dal fuoco faustiano.
Dall’acqua. 
L’acqua lava via, purifica, lascia l’essenziale. 
Il midollo, il cuore, l’anima. 
Io resto incollato all tv. Ci vedo Davide contro Golia. Ci vedo la metafora di una vita. Ci vedo le rivincite così come avrei sempre voluto che fossero. Una fidanzata che ti dà il due di picche, un amico che ti batte sulla linea d’arrivo, un brutto voto a scuola. Lui è lì a ribaltarle. E io lì ho bisogno di lui. In quel momento. 
Ci sono i miei 58 kg di scalatore inconsapevole, le mie insicurezze, la mia fragilità sulle sue spalle in quel momento. E lui mi porta su.
Capito? Lui mi porta su, in cima al Galibier. E non è mica poco.
Io sorrido come un bambino nella cesta di uno sherpa. Vado su. Mi pare uno spasso. Lui mi porta. E io vado su.
Non era solo bicicletta. Questa è l’unica cosa che so. Quel giorno di luglio, non era solo bicicletta.
C’era dell’altro. 
In quell’acqua che scorreva a valle, in quel fumo che esalava dal corpo. 
Non sapevo allora, che undici anni dopo sarei andato a trovarlo a casa sua. Da ciclista. 
Panta rei.