Fogliegialle

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Magician, magician take me upon your wings
And gently roll the clouds away
(Lou Reed)

Autumn, Mon Amour.
Pedalare d’autunno è la cosa più bella del mondo.
Non che non l’abbia mai fatto prima, intendiamoci. Ma non mi ero mai accorto di quanto fosse davvero così bello. Un piccolo miracolo.
L’assenza di obiettivi rende la pedalata più leggera, fai quanto riesci, quanto ti pare, come ti pare, dove ti pare. Senza affanno. Poco, tanto, abbastanza: le categorie prendono un’altra piega, quella del “come ti gira al momento”. Vuoi fermarti a bere il caffè e leggere la Gazzetta? E pigliati sto’ caffè. Anzi, siediti anche, ci sono laffuori dei tavolini con l’ombrellone e dopo tutto non fa nemmeno così freddo. Se non ti siedi – lo capisci da solo mentre guardi il cielo azzurro terso – sei un cretino.

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Easy Going
Hai visto uno scorcio che addobbato così – rosso, giallo e ocra – non avevi mai notato? Che c’è di più facile: sganci il pedale, infili la mano in tasca, prendi il telefonino e fai la foto. Easy going.
Poi, magari la riguardi in preview e – se non è venuta bene – la rifai anche.
Prendi appunti, mentali e non. Fosse stato un ciclista, Chatwin si sarebbe portato dietro uno dei suoi taccuini neri con l’elastico. C’è da scommetterci.
Immagini reportage inventati per riviste inesistenti, sogni di essere un grande scrittore in cerca di ispirazione per il suo nuovo romanzo che sicuramente – quest’anno, lo sanno tutti – vincerà il Pulitzer. Ti fingi novello Wim Wenders, e studi un documentario sulle visioni autunnali e le foglie che cadono.
Per la verità, cadono anche le castagne, una, ancora avvolta nel suo riccio, mi sbatte proprio ora sul casco, facendo uno “schiock” che squarcia la valle.
Contempli il primo fumo che esce, gentile, dai camini, noti un tornante avvolto da un banco di edera rossa come il fuoco. Che vuoi di più?
Qualcosa.

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La macchina che non metteva a fuoco.
L’autunno va bene infatti anche per pensare, magari riflettere a maggior distanza su qualcosa di andato storto. In settimana capita per caso che hai perso un amico, uno di quelli speciali, nel modo più assurdo e incredibile del mondo.
Non l’hai ancora messo a fuoco quanto è successo, c’è poco da fare. E allora devi pedalare.
Ma poi succede una cosa strana: anche pedalando, quando di solito tutto torna, questa volta non torna un bel niente. Là dove una volta ti facevi mago, ora non riesci a compiere l’incantesimo.
Cominci, o quantomeno ti sforzi, di mettere a fuoco: come avessi tra le mani una vecchia macchina fotografica Reflex, di quelle con la ghiera dell’obiettivo per la messa fuoco manuale e magari anche il telemetro per trovare la giusta esposizione.
Il fatto però è che stavolta la ghiera non gira, non come al solito. È irrimediabilmente inceppata. I contorni dell’inquadratura restano sfumati, sembrano diventare chiari solo per qualche istante, ma è solo un’impressione, poi tornano immediatamente confusi e liquidi come prima.
L’unica cosa che sai invece essere cristallina e senza esitazioni è l’immagine che hai di lui. È lì davanti a te in questo momento. Vivo e scalciante. Come un bimbo, come un essere umano. Sorride, sembra volerti dare la mano. C’è.
Un’immagine più potente di mille messe a fuoco, un’istantanea che qualunque fotocamera al mondo si rifiuterà di definire. Purtroppo però lui non c’è davvero più. Una verità cruda che per un po’ scompare, come un mal di testa, ma che poi – appena ti sei rilassato – irrimediabilmente torna. Un dolore intenso e acuto, ma allo stesso tempo tragicamente sordo. 

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La strada.
La strada si fa via via meno trafficata, sali veloce – la gamba è ancora buona, ricordo dell’ultima Ötztaler forse – all’inizio qualche motociclista ti fa compagnia, poi mano mano che ti allontani, nessuno. Finché non rimani completamente solo, lungo una magnifica striscia nera in mezzo al rosso, al giallo e a qualche – sparuta e disadatta ormai – macchia di verde rimasta. E ti scopri in autunno, nel cuore di una stagione, con le emozioni che zampillano evanescenti ma intense come stilettate.
I contorni possono rimanere fusi come il ghiaccio quando si scioglie, le sagome restare indefinite e sfuggenti.
A farti compagnia adesso, ci sono foglie gialle, il vento che si infila nel casco, sotto la mantellina, in mezzo alle gambe e l’immagine di lui. La pelle si corruga in una smorfia di freddo, è ora di scendere, guardi in fondo, la valle e poi là davanti, verso l’orizzonte.
I profili delle montagne: aguzzi come matite appena temperate e definiti – quelli sì – come poche altre cose.
Ti fermi.
È la tua strada. Lo capisci subito. Dovevi venirci.

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Piccola guida galattica per ciclisti.  
Dimenticavo. Il mio autunno, dalle temperature miti, l’ho passato sul Garda. Le foglie mi sono sembrate gialle dappertutto. Di tutte le sfumature possibili di giallo, andateci e lo vedrete da voi.
Ho cominciato a salire appena dopo Salò, sponda bresciana del Benaco, facendo le cosiddette “Zette” che in dialetto, mi hanno spiegato recentemente, significa “tornanti”. Una dolce serpentina dalle pendenze facili. Poi, riguadagnato il golfo, ho affrontato la salita, più impegnativa, per Serniga e quindi proseguito per San Michele e infine sono sceso a Gardone. Ho sfiorato il Vittoriale, curato con la coda dell’occhio gruppi di turisti.
A Gargnano, ho preso a salire con più decisione.
Volevo un ultimo tango con la mia valle incantata preferita, da dedicare al mio amico (avrei voluto portarcelo). La valle si chiama Valvestino, nell’Alto Garda. Una zona di confine, una targa – lungo il piccolo bacino artificiale chiuso da una diga bombata – mi ricorda che qui una volta finiva l’Italia: si entrava in Austria-Ungheria.
I paesi della Valvestino sono sette. Leggenda vuole che fossero come sette fratelli, venuti su insieme, volendosi bene, ma talvolta litigando furiosamente. Hanno personalità diverse: Armio è baldanzoso, Magasa si nasconde nelle retrovie, Moerna ridacchia in seconda fila, Persone è tutto fuorché il suo nome, Turano tace e sorride, Bollone l’accompagna, Capovalle guarda tutti dall’alto in basso.
E forse anche io, dopo tutto, sto un po’ meglio.

(In memoria di Francesco Colombo).

La traccia del mio percorso su strava.

Photo credits: ©ciclistapericoloso (Valvestino – Parco Alto Garda Bresciano)