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San Gennaro, la Taranta e le Dolomiti.
Il Miracolo delle Dolomiti si ripete ogni anno uguale. Tutto accade in una manciata di secondi, alle 6 del mattino o giù di lì, tra 9.000 fedeli che gremiscono la cattedrale del massiccio del Sella come pallidi fedeli dell’infedele. Mentre vi girano attorno come una lama sottile, paion quasi tagliarla quella roccia sacra. I solchi dei loro copertoncini scavano ogni anno più in profondità la Dolomia, facendovi scaturire acqua santa. Acqua magica. Pietra ancestrale, la Dolomia, e onirica che ha casa solo quassù.
E come dargli torto a costoro? Sacro e profano si mischiano in queste valli dal sapore incantato. Ogni anno, alla stessa ora, con lo stesso taglio di luce, inconfondibile, delle sei del mattino. Mentre salgon il Pordoi, sono tutti vincenti (come detto). Un serpente giapponese colorato di migliaia di caschi e magliette. Ognuno in sella per guadagnare, oltre al Sella, anche il Gardena. E poi, in picchiata il secondo passaggio da Corvara. Alcova dell’immaginario a pedali. Ogni anno, alla stessa ora, ogni anno nello stesso, magnifico, e paradossalmente irripetibile modo. È come se a Corvara si ripetesse qualcosa che non può essere ripetuto. Un miracolo primordiale e che ha a che fare, come ha detto bene Michil Costa (shamano del miracolo), con le divinità. Quelle delle Dolomiti, che tanto ricordan quelle greche. Il discorso di Michil alla partenza è un misto di Hegel e Pericle. I ciclisti tacciono alle 6 del mattino attoniti. Come soldati pronti alla pugna. O figure dello spirito pronte a farsi dialettica. Molti di loro non capiranno una mazza di quello che quel profeta blasfemo e sacro racconta splendidamente. Ma non importa. Tutti sanno che quel giorno è una festa. Una liturgia che ha più a che fare con la Taranta che con le Granfondo. Un rito pagagono ancestrale che si consuma a suon di pignoni. Essere lì alla partenza, come pochi minuti dopo sui tornanti del Pordoi, e ore dopo su quelli del Giau è partecipare a un rito woodoo più che a una gara ciclistica. I tarantolati non stanno in Salento oggi, sono a Corvara. Il rito blasfemo del culto dei morti non si consuma in una chiesa di Spaccanapoli, ma lungo le rampe del Valparola. Se li guardi, perché alla fine non riesci a non guardarli, gli occhi di quei ciclisti in griglia, li vedrai umidi e in trance. Michil dirà loro quello che vorrà e loro in un rituale ipnotico si tramuteranno in popolo posseduto dal ritmo. Quello magico della Taranta di un trentaquattro per venticinque. Quello che ci vuole per fare questi 4000 m. di dislivello. Ogni anno, ogni fottuto anno, nella stessa maniera, nella stessa, fottutissima, ma meravigliosa maniera.
Non ho molto altro da dire sulla Maratona. È una botta di vita. È come una spada in endovena, presa da Christiana F e mandata dritta nel regno delle endorfine. Non c’è confine, in fondo, tra quella che è una droga cattiva e quella che è una, supposta, droga buona. Perché il bene e il male si annullano quando stai bene. Non importa cosa ti fa sentire bene, importa sentirsi in Paradiso.
E a Corvara, fratelli, nel mezzo di uno straordinario rito di massa pagano e purificatore, io in Paradiso ci sto. Con la P maiuscola, appunto.
Fratelli, ma mica è finita qui.
Datemi tempo, che. ora che il sangue s’è liquefatto, inizia il racconto. Quello vero.
CONTINUA…