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Show must go on.
Ecco, ci sono.
Scusate non c’ero. Ero “rimasto sotto”. Sotto una montagna di lavoro, nuovo ed eccitante. Ma, soprattutto, sotto la brutta storia di Lamezia Terme.
Eh già, quest’ultima è di quelle che fanno male. Un pugno nello stomaco forte, da affossare bilanci in positivo (quelli di questo personale ciclistico 2010) dell’anno. È stato un fulmine a ciel sereno. Che mi ha fatto rendere conto in un attimo del rischio, del pericolo, dell’incoscienza di cui è impastato il nostro sport. Sì, è come se d’improvviso mi fossi reso conto che, cavolo: è pe-ri-co-lo-so!
È fottutamente pericoloso, amici miei. Ma non nel senso bello e positivo che questo blog è solito usare. No. Nel senso brutto e triste del tutto. Uscire in bici da corsa è una scelta. Bisogna esserne consapevoli. Sapere a cosa si va incontro. E saperlo davvero. Guardate, mi riferisco molto chiaramente alla bicicletta da corsa, perché ho letto nei giorni successivi alla tragedia, tantissimi bellissimi articoli sull’accaduto che, a mio modestissimo, avviso perdevano di vista la questione. Quelli che han perso la vita sono 7 appassionati di bicicletta “da corsa”. Che erano soliti viaggiare su quelle strade, che uscivano ad allenarsi, che sapevano come farlo, con tutte le precauzioni del caso (casco incluso). Non erano dei ciclisti urbani, non erano dei cicloturisti, non erano usciti a far la spesa in bicicletta o una passeggiata. Eravamo noi sulle nostre specialissime al carbonio (quelle che a Paolo Rumiz di Repubblica, ad esmpio, non piacciono: buon per lui, noi invece le adoriamo). Erano 7 soldati di una truppa silenziosa. Quella che sui giornali non appare, in tv non ci va, e che per molti è solo un intralcio domenicale in Brianza e su tutte le strade provinciali e statali italiane. Quella dei ciclisti che escono per passione. Quella dei ciclisti che si allenano per le granfondo, per il Gavia, il Mortirolo, la Maratona, la Marmotte, la Novecolli. Quella di chi si alza alle 5 del mattino, con il buio, per andare a menare il cinquanta prima di andare in ufficio. E che gli altri non capiscono. E non possono capire. Quella di chi magari invece di spendere 5-6 mila euro per un inutile scooter, decide di spenderle, assurdamente per i più, per qualche chilo di carbonio. Magari con reggisella integrato. Sono morti dei ciclisti come noi. E da oggi anche noi, io almeno, ci sentiamo più nudi. Più scoperti. Come avessimo lasciato la mantellina per strada, scappata fuori dalla tasca. La carrozzeria dei SUV ce la sentiamo ancora più maledettamente vicina alla pelle. Siamo come gazzelle in mezzo ai leoni. Andiamo veloci, leggiadri: è indubbio che ci sia molta più poesia nel nostro andare che in quella di chi si chiude in una scatola a quattroruote, per una strada di montagna. Ma non basta. Alla fine ci schiacciano, ci soffocano, ci annientano. Basta una sbandata. Basta un sorpasso. Come nel film. Ma come anche, purtroppo, nella realtà: a Lamezia.
Gli voglio bene a quei 7. Mi mancano, ci mancano, da morire. Ma so e sappiamo anche non smetteremo mai di alzarci la domenica mattina, di emozionarci, carichi di passione e adrenalina, mentre faremo gli ultimi preparativi, prima di una grande bellissima uscita di gruppo. Siamo come piloti dei tempi moderni. Portiamo caccia spericolati, e non ci accorgiamo del rischio che corriamo, ma non possiamo farne a meno. Siamo belli a vederci, e ci sentiamo meglio con noi stessi quando torniamo, con le gote rosse in inverno e il sudore sulla fronte d’estate. Siamo ciclisti. E questa è la nostra dipendenza. Senza non viviamo.
E come farlo, assumendosi la responsabilità del rischio che corriamo? Non si può. È semplice.