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Su di Giri.
4 caratteri per vincere 1 Giro d’Italia.
Mancano solo 2 giorni al Giro d’Italia numero 99. E, non so voi, ma io sono già eccitato.
Per correre un Giro al meglio, occorre un mix perfetto di freddezza, coraggio, resistenza. Non basta – o non sempre basta – gettare il cuore oltre l’ostacolo. Non basta nemmeno correre al risparmio e imbastire strategie quando occorre. Non è sufficiente però neppure saper soffrire e osare. Ci vorrebbe tutto. E spesso si finisce per non avere niente.
Per omaggiare questo Giro d’Italia 2016, ho pescato dal mio nuovo libro, tra i tanti, 4 caratteri diversi, che messi assieme forse avrebbero generato il corridore perfetto.
Ecco a voi l’ingordo, il generoso, l’antipatico e il cocciuto.
L’Ingordo.
Nevica come se fossimo in gennaio. A un tratto un ragazzotto con le basette lunghe e il ciuffo alla Elvis Presley parte. Sembra abbia fretta. Indossa una maglia iridata con una scritta nera: “FAEMA”.
Esce dal gruppo. Forse è solo un bluff. Forse non sente il freddo. Dicono sia belga, poco avvezzo alla salita e molto più alla pianura. Eppure va su che pare in moto: in pochi chilometri recupera 9 minuti a sedici fuggitivi. A sedici nomi roboanti del ciclismo dell’epoca. La sua sembra quasi una mancanza di rispetto: Polidori, Ocaña e l’onesto Bitossi saltano via tutti come birilli. Adorni, suo compagno di squadra e di stanza, lo segue per tre chilometri, poi deve mollare: “Spinge come un dannato, non si può stargli dietro”, dirà.
Si voltano a guardarlo. “Ma chi è questo qui? Come fa ad andare così, con ‘sto freddo?”.
Del resto, il ragazzotto del Brabante è quasi uno sconosciuto: finora qualche piazzamento, un titolo mondiale, ma ancora tutto da dimostrare in una corsa a tappe. Nemmeno conosce quella salita tanto dura, le Tre Cime di Lavaredo, nel cuore delle Dolomiti. Una salita aspra, senza valico, da cui non si scende. Una salita di solo sette chilometri, ma ripidi da far spavento. Pendenze proibitive, quasi tutte a doppia cifra, sopra il 10 per cento. Una delle più difficili in assoluto in Europa.
(Da “Eddy Merckx: l’ingordo”)
Il Generoso.
Gli occhi sono però tutti puntati su quel ciclista possente che pedala su una bici con ruote lenticolari.
Tu te ne stai in disparte, seduto su uno sgabello, lo sguardo girato verso lo schermo.
I tuoi capelli brizzolati coprono la visuale a chi è seduto più indietro, ma nessuno osa fiatare. Sei ancora alto, le tue spalle larghe e possenti come un tempo, metti in soggezione come quando correvi. Pedali ancora del resto, più di 5000 chilometri all’anno. Sullo schermo il tuo bolide entra nell’Arena di Verona, il teatro finale di quest’ultima tappa del Giro d’Italia 1984.
Tagli il traguardo e scendi dalla bici stremato, quasi cadi se non fosse per la folla pronta a sorreggerti in un abbraccio ideale. Hai appena vinto la tua prima corsa rosa, a 33 anni. Ormai è chiaro infatti che Fignon – partito poco dopo di te – non ti riprenderà più. I minuti che gli hai inflitto sono troppi.
Sei riuscito a correre anche il Giro d’Italia a modo tuo. Come se fosse una classica, una gara da un giorno, l’ultimo, dove dare tutto o non dare niente. Lo hai fatto contro tutto e contro tutti in una sola cronometro. E come se no?
(Da “Francesco Moser: il generoso”)
L’Antipatico.
È il giorno dell’ultima fatica: si va da Gorizia a Udine, è una cronometro individuale. Vi giocherete lì la maglia rosa.
Sei talmente antipatico che, la sera prima, tentano persino di avvelenarti. Non fosse stato per quei carabinieri in borghese, avvisati da un cameriere del tuo albergo, avresti passato la giornata chiuso in bagno sulla tazza, altro che cronometro. Nelle loro mani due confezioni di Guttalax, pronte a fare il loro dovere, magari sciolte nella minestra. Perché tanto odio? Sembri stupito, incredulo.
Non saprai mai chi è stato, l’hai solo potuto immaginare e te lo sei tenuto per te tutti questi anni, facendo spallucce a chi ti chiedeva un’opinione in merito.
Eppure questa cattiveria ti dà la forza che ancora ti manca. Il Giro è tuo, la crono la vince Visentini, ma non è sufficiente a fargli recuperare lo svantaggio. Resta a più di un minuto. Beppe ce l’hai fatta.
Arrivi a Udine, acclamato dalla gente, tagliato il traguardo quasi crolli dalla bicicletta. Sei stravolto, ti guardi intorno spaesato, vorresti solo andare a dormire, spegnere tutto. Ti pesano persino le interviste e i festeggiamenti, quel rosa della maglia, tanto sudata, fai fatica a godertelo appieno.
(Da “Beppe Saronni: l’antipatico”)
Il Cocciuto.
Esattamente come Mohammed Alì nel leggendario match di Kinshasa contro Foreman, Marco ha duellato con il russo Pavel Tonkov sulle rampe di Plan Montecampione finché non l’ha mandato al tappeto, e ha portato a casa la sua prima, metitatissima, maglia rosa. Quella che gli era sfuggita troppe volte, martoriato dalla sfortuna e dagli infortuni com’era. Quella volta no, finalmente il destino gli aveva sorriso. Ma non lo aveva certo favorito, la sua maglia di leader della corsa aveva dovuto sudarsela tutta. Per battere Tonkov, il più vicino in classifica generale, aveva dovuto alzarsi sui pedali non una, ma ben due, tre, dieci volte. Pavel, che tanto amava l’Italia da prenderci persino casa, aveva sempre risposto agli scatti di Marco, uno dopo l’altro, incollandosi alla sua ruota senza mollarlo. A casa tutti avevano patito le pene dell’inferno, su quei tornanti erano saliti anche loro con Marco. Poi alla fine Tonkov aveva dovuto cedere. Di schianto. Mentre Marco si alzava sui pedali per l’ennesima volta guardando nel vuoto davanti a sé, Pavel era rimasto seduto, segnale che non ne aveva più. Il russo aveva ricevuto una gragnuola di colpi che avrebbe sfinito chiunque; non a caso a fine tappa dirà che “non sentiva più né gambe né braccia”. E c’è da credergli. Invece Marco, a vederlo in tv, in quel momento – quello della resa dell’avversario – sembrava un missile sparato in cielo. Nulla lo avrebbe fermato.
(Da “Marco Pantani: il cocciuto”)
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