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Stand by W.
Fin da subito mi ha impressionato quanto accaduto il 9 maggio scorso a Wouter Weylandt. Giro d’Italia, terza tappa, arrivo a Rapallo, giornata splendida, calda di sole più estivo che primaverile. 30 km, forse meno, all’arrivo. E non lo sapevi che dietro la curva c’era la morte che ti aspettava. Il giovanissimo corridore belga del team Leopard, lo stesso di Andy e Frank Shleck, futuri protagonisti al Tour de France, scende contento, disinvolto, allegro. Forse si sente già arrivato, o forse no. Forse teme che gli inseguitori, da dietro, possano riprenderlo. O forse li vuole aspettare lui: da Borgonovo Ligure a Chiavari è un falsopiano con vento sempre contro. Affrontarlo da soli – e Wouter è solo – è da pazzi. Le energie, dopo oltre 150 km, possono scendere al lumicino: e poi, prima di Rapallo ci sono altri 250 m. di dislivello! La salita alle Grazie. Lungo l’Aurelia ligure. Uno strappo maledetto. Il mare davanti osserva beffardo. Wouter si distrae, si volta indietro per vedere cosa capita alle sue spalle. Insicuro anche lui sul dafarsi. Quando si rigira ha perso la traiettoria della curva. La discesa è veloce ma non impossibile, ma la direzione che ha preso è ormai chiara: non raddrizzerà mai più la traiettoria. Con un pedale colpisce il muretto sulla destra, la bicicletta diventa una carambola impazzita. Centra in pieno il paracarro sulla sinistra, lo ammacca pesantemente, quasi lo sfonda, e poi precipita orfana del suo cavaliere sull’asfalto duro e nero. Wouter è già un Cristo morto a braccia a terra. A pancia in giù. Un rivolo di sangue rimanda immediatamente a Fabio Casartelli. Ma non ci si vuol pensare. E non ci si pensa. Sua moglie, incinta di pochi mesi, a Rapallo lo aspetta e si gode il mare in qeusto anticipo d’estate. Ancora, lei non lo sa. Bene, ho passato l’estate a cercare WW 108. Questo il suo soprannome tra i compagni, questo il suo numero in gara. Ho vagato come anima in pena attraverso l’entroterra ligure, alla ricerca di un brandello, di un cimelio, non so bene nemmeno io di cosa. Ma l’ho fatto. Senza pensarci su. Come se una calamita mi attraesse a sé. Come se, da ciclista, avessi un dovere da compiere. Una missione etica. Fatta di cose non dette e regole non scritte tra ciclisti. Una parte di me voleva capire, cercare, trovare qualcosa. In una parola: redimere quanto accaduto. In qualche modo, nel suo piccolo, di cicloamatore. Così sono andato a pedalare tra Chiavari e Carasco, tra il Tigullio e le valli che sconfinano con l’Emilia. Terre brulle e boscose, allo stesso tempo. Terre spesso, in questa stagione, teatro d’incendi o di refrigerio dagli ombrelloni canicolari della riviera. A seconda dei gusti. Ho pedalato in salita, in falsopiano, in discesa, senza ben sapere dove fosse WW 108. Non avevo seguito il Giro, non sapevo dove fosse avvenuto l’incidente. Sapevo solo: 30 km dall’arrivo a Rapallo. Ho chiesto nei borghi agli anziani. Come fossi un viandante sulle orme di qualcuno da salvare. O come il protagonista di “Stand by me”, girovagando per boschi, ponti e torrenti, alla ricerca di un corpo umano esanime. E, finalmente, l’ho trovato un mattino d’estate che il sole era da poco sorto. Al km 2 della salita per il Passo del Bocco,. Per l’esattezza a Isola di Borgonovo Ligure. E così, prima di rendere omaggio a WW 108, son salito fino cima al passo. Ho voluto provare a fare quella maledetta discesa. Tutta. Ho voluto provare quello che aveva provato lui. Per farlo, però, prima dovevo salire. 15 km d’ascesa, pendenza media attorno al 6%. Il passo del Bocco è una salita facile facile. Ed è bellissima. Un lungo serpentone nero, incastonato prima tra la macchia mediterranea e i piccoli borghi liguri, tutti casette colorate, poi in un surreale paesaggio alpino, a uno sputo dal mare. Poco meno di 1000 metri sul livello del mare. Un’osteria, e un crocevia di strade che conducono verso Parma e i colli Emliani. Volto la prua e affronto la discesa. Facile, sinuosa, rilassante. Troppo rilassante. Si fa a occhi chiusi. Si toccano tranquillamente i 60-65-70 all’ora. La carreggiata è ampia e scorrevole. Il traffico praticamente inesistente. Mentre scendo, sono le 8 e mezza del mattino, comincio a incontrare qualche drappello di ciclisti che sale. Ci salutiamo, con un velo di tristezza tutti negli occhi. Impossibile non sapere, impossibile non immaginare. Così passo in rassegna le briciole di case che compongono brandelli di comuni: San Siro Foce è l’ultimo prima di Isola di Borgonovo. Arrivo lì e mi è tutto chiaro. Doppia curva larga, dopo la sequenza di tornanti, la velocità cresce. Ci si fida di se stessi qui. Si va giù come il vento. È tutto dritto. Wouter si volta, ha seminato gli inseguitori o perso i compagni cui unirsi in gruppo per affrontare la pianura controvento che non l’aspetta. Si volta, ti volti, Wouter. Perché? È una domanda assordante che non ha e non può avere risposta. Ti volti perché l’avrebbe fatto chiunque probabilmente. Ma magari un attimo prima o un attimo dopo. Tu lo fai in quel dannato momento. Basta una frazione di secondo e capisci che la bici non la raddrizzerai più. La TV non segue la discesa, non inquadra quegli attimi impressionanti. Un lancio nel vuoto. Come l’uomo cannone. Eppure la TV indugerà, e non poco, poi sui soccorsi. Mostrandoci per troppo tempo un Cristo esanime, braccia a terra e un volto innatuaralmente tumefatto e senza espressione alcuna. Come il ragazzino scomparso nel bosco e ritrovato dai protagonisti in Stand by me. Il corpo esanime è inconfondibile: si vede subito che non è tra noi. Là le scarpe volate via, per l’impatto con il treno, qui il laccio del caschetto tranciato dalla forbice dei soccorritori. Wouter è là steso. Wouter è le borracce, le maglie, le foto, persino i biglietti dei cicloamatori che passano di qui. Mi accorgo che non ho niente da lasciare. Tocco la pietra fredda sulla mia destra: il muretto a pochi centimetri dalla sua morte. C’è già una piccola targa con le date di nascita e di morte: così vicine da far rabbrividire qualunque essere umano. C’è un silenzio irreale, solo lo scorrere del torrente davanti, pronto a confluire nel più grande Sturla. La Val l’Aveto è così: silenziosa, rotta solo dallo scrosciare dell’acqua dei fiumi. Sulla mia sinistra, pochi passi più indietro, un paracarro ammaccato. E un fiore nel punto dove s’inclina di più. Impressionante: un corpo può sfondare l’acciaio. Nessuno ha visto direttamente. Nessuno può affermare con certezza la dinamica dell’incidente. Gli inseguitori troppo lontani. Le ammiraglie pochi metri più indietro o più avanti, nel gruppo dei fuggitivi. Spettatori in quel tratto senza case, nessuno. In discesa sei solo. Come in salita. WW 108 rimane lì. Ha già spento tutti gli interruttori. Il gentile e meraviglioso Passo del Bocco se l’è inghiottito. Una salita bellissima, inedita per me, ma che rifarò sempre. Eppure una discesa assassina che ha portato via una vita. Crudele quando sono i gentili a uccidere. E a volte capita anche questo.