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Perché io salgo.

Ritratto di salita con ciclsita.
Perché mi piace andare in salita?
Perché fare fatica, consumare ettolitri di liquidi, farsi venire il mal di schiena unicamente per inerpicarsi come degli idioti su dei tornanti a gomito? Perché amare l’ondulato, quando puoi startene sotto un ombrellone a sorseggiare una noce di cocco, bello orizzontale?
Bella domanda. Stupida.
Orizzontale ci starò quando mi metteranno sottoterra.
Già, perché non c’è niente di più bello al mondo che essere inclini all’inclinazione. State a sentire.
Partiamo, per esempio, da quello che si vede quando si sale: nessuna strada mi pare bella, nessun paesaggio mi pare affascinante, “completo”, come quello che si inclina al mio sguardo. E nessuno senso di soddisfazione, di impresa e, in ultima analisi, di libertà è pari a quello che mi dà il salire con la bicicletta. Non c’è altro modo di pedalare che tenga per me. La salita è l’essenza del ciclismo e della libertà di cui il ciclismo sa ripagare chi lo pratica. Ma non è solo questo.
Vedete, quando si sale, c’è un modo, un senso, una posizione. C’è un’etica della salita. Ne si ha la certezza quando si sale e, inevitabilmente, scompare in fretta quando si scende.
Si rifà pressante, solo pochi minuti dopo, il desiderio incolmabile di riprovarla questa certezza. Di ritrovarvicisi a tu per tu, e di farlo il più presto possibile. Come una droga. Ribattezzata qui Di-pendenza.
Salire crea un paradiso artificiale.
Perché, vedete, l’unica parola inadatta a dischiudere il concetto di salita è, paradossalmente, proprio quella più abusata per descriverla: fatica. C’entra niente, la fatica, con la salita. Parole vacue di giornalisti mai realmente “saliti”. Già, perché in salita, si vola. E si dimentica.
L’ascesa del ciclista, solitario, in fuga (dagli altri e da sé stesso), intesa come metafora di vita (ma anche di morte), topos letterario ed esistenziale, gorgo tragico e dantesco. Cosa è la salita? Cosa rende questo spazio temporale, questa epopea drammatica che va in scena anche solo per pochi chilometri, ogni volta mitica ed eroica? Cosa rende antropologicamente riassuntiva di tutto la figura dello “scalatore”?
La fatica? No, il contrario.
La figura di colui che sale è spesso sgraziata, antiestetica, poco gradevole. Se percepita ferma. Ma, in movimento, i parametri estetico-percettivi si ribaltano all’improvviso: essa pare una macchina perfetta, dall’aerodinamicità plastica e slanciata irraggiungibile. Niente pare superfluo. Non un muscolo, non un nervo, non una ciocca di capelli sono fuori posto. Tutto prende senso. Improvvisamente, tutto appare sotto una luce nuova. Tutto “torna”. Quando quel particolare movimento che è l’ascesa ha inizio, ogni cosa è al posto giusto. Al posto, cioè, che le si confà: quello di combattimento. E non potrebbe essere altrimenti. Come se la bruttezza estetica, l’apparente inatleticità del corpo dello scalatore, una volta giù dalla bici, fossero in realtà un pegno da pagare all’ascesa. Alla salita. Al destino. Ecco, la silhouette dello scalatore –mirabile congenio di muscoli – secondo il suo poeta per eccellenza, Gianni Brera:
La struttura morfologica di Coppi, se permettete, sembra un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Coppi in azione non è più un uomo, del quale trascende sempre i limiti comuni. Coppi inarcato sul manubrio è un congegno superiore, una macchina di carne e ossa che stentiamo a riconoscerci simile. Allora persino i suoi capelli che il vento relativo scompiglia, paiono esservi per un fine preciso: indicare la folle incontenibile vibrazione del moto.
Il volto affilato e nervoso è un completamento della dinamica meravigliosa cui pure obbedisce il torace a carena. Le braccia sono due aleroni d’attacco. Non altro. Dalle reni ampie e falcate, dalle anche robuste si partono i muscoli che conferiscono alle gambe di Coppi quell’aspetto di leve disumane. Nel giro uniforme della pedalata, questi muscoli schioccano come elastici or tesi or rilassati con arte sagace e il brillio dei raggi, nelle due ruote, entra per la sua parte a creare uno spettacolo di meccanica facilità e di umana vigoria che conquista.
Allorché agile procede sul piano, l’abusata immagine della locomotiva che avanza per alternarsi di bielle in rotazione ti viene imposta da Coppi. Allorché, dondolando ritmicamente sui pedali, si attacca ad una salita e tu vedi Coppi al di là di ogni umano limite rinnovare l’antica bellezza dei miti più non osi guardarlo se solo pensi che egli è, come te, uomo. Più non osi per non sentirti a petto suo, troppo meschino. E allora pensi spontaneo esaltarlo come un fenomeno unico dello sport: ed esaltarti in lui che, grandissimo e ineguagliabile campione, è almeno, come te, italiano.
(da Gianni Brera “Ritratto breve di Fausto Coppi” – La Gazzetta dello Sport, 27/7/1949)