L’uomo sullo Stelvio.

Quella volta che partimmo. E non tornammo mai.


Prologo

Torre di Controllo a Maggiore Tom,
Torre di Controllo a Maggiore Tom,
Prendi le tue pillole di proteine e mettiti il casco.

Torre di Controllo a Maggiore Tom
comincia il conto alla rovescia,
accendi i motori,
controlla l’accensione
e che Dio ti assista.

(parlato)
Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque,
quattro, tre, due, uno, Partenza

Questa è la Torre di Controllo
a Maggiore Tom,
Ce l’hai proprio fatta
E i giornali vogliono sapere che marca di camicia porti
E’ arrivato il momento di lasciare la capsula se te la senti.

Qui è Maggiore Tom a Torre di Controllo,
Sto uscendo dalla porta
E sto galleggiando nello spazio
in modo strano
E le stelle sembrano molto diverse oggi.

(David Bowie)

Sono in orbita.
Datemi per dipserso.
Sono sceso dalla capsula. Non torno. Lasciatemi in pace. A 2.758 metri sul livello del mare.
Ho visto prati verdi balenare al largo del Gran Zebrù. Mucche in transumanza attraversarmi la carreggiata e mollarmi lì come un deficiente.
Una cascata vorticosa passarmi a due passi dai copertoncini e chiamarmi a sé come le sirene Ulisse (e io incatenato alla pedivella come Ulisse all’albero maestro).
Ho guardato un masiccio di roccia con tutto il ben di Dio che si portava dietro: un ghiacciaio che sgorgava in una pietraia lunare attraversata da rigagnoli che si facevan’ poi fiumi. Uno di essi, il Solda, l’ho visto venirmi prima incontro impetuoso e poi, via via, farsi più timido lungo la strada fino a scomparire ritraendosi nel ghiaccio vitreo e azzurrino.
Non ho visto, quelli no, galeoni in fiamme al largo dei bastioni di Orione, ma poco c’è mancato.
Sullo Stelvio, inteso come luogo della mente ancor prima che in carne ed ossa, io son stato. E da là ho deciso di non scendere.
E ora state a sentire il perché. Perché è una bella storia quella che ho da raccontarvi.

Parte Prima – Il versante di Bormio.

Sono le 7 del mattino, canta il gallo al Garnì Iris di Cepina Valdisotto, 5 km da Bormio.
Suona la sveglia. Suona il clacson. Suona il telefono.
È “l’autista”. Ci butta giù di branda, modello sergente Hartmann in Full Metal Jacket.
Egli è giunto da Milano, in compagnia del “Gelataio”, con partenza ore 04:45 del mattino.
Noialtri si dormiva ancora come ghiri.
I manicotti ancora in tasca, le SIDI adagiate a terra. Il cuore in fiamme. Si va a fare lo Stelvio, dice l’Autista, giù menare il trentaquattro!
Mezz’ora dopo siamo in mezzo alle rocce. Incavati tra pareti incombenti e una strada che s’incunea tra gallerie nere e scure, che ricordan quelle dei minatori del Sulcis, e pietroni rotolati da chissà dove. Come canditi dal panettone.
La strada, si diceva, non ci lascia capire dove ci porterà. Occorre fidarsi, seguirla e non cercare di “controllarla”. Immaginarsi di esser sulla luna e di vagare cullati da una lingua d’asfalto calata non si sa bene da dove: questo il giusto portamento da tenere salendo da Bormio.
Pendenze assolutamente cristiane fino ai primi dieci dodici chilometri, poi la strada s’apre e s’impenna, toccando il 14%, in prossimità di una cascata impetuosa e maestosa. Di quelle che fan rumore. Di quelle d’alta montagna. Che se ne van per i fatti loro, mica stan qua a curarsi di noi che si sale. La strada è vuota: la giornata organizzata con la chiusura del traffico gira che è un orologio. Siamo solo in 6, come la spedizione sul K2, a darci la cordata verso lo Stelvio. Il Gelataio i ramponi, L’Autista le corde, la “Coppia del pedale” piccozze per tutti.
I turisti saliran con calma poi. Col caldo. A ore crisitiane. Loro.
Noi guadagnamo così il primo pianoro che inganna lo sguardo e il polpaccio, dopo i duemila metri. Ecco le prime mucche.
E poi si acciuffa la capsula catapultata da Marte del Passo Umbrail, i più esperti stelviofiti si ferman qua. In due soltanto ci attardiamo per conquistare subito, una prima volta, sua Maestà Re Stelvio. I reali non si fanno aspettare, mi ha insegnato la mamma.
La vetta è vuota e quieta. Ancora. Una fantasmagoria dopo averla vista tante volte in cartolina. Il rifugio Tibet con la sua sagoma architettonica inconfidbile ci guarda e ride dall’altro. Maestoso castello arroccato a quasi tremila metri. I tornanti che salgono da Prato non li guardo: di lì a un paio d’ore dovrò farli tutti, uno ad uno.
Meglio non spaventarsi.
La pietraia s’è fatta prato aperto e vedrissimo. La neve non c’è. La pelle d’oca mi coglie all’improvviso, dopo aver indossato rapido gambali, mantellina e passamontagna. Passi la montagna, ma io preferisco aver caldo che freddo.
La pelle d’oca mi coglie e non so bene se per il vento che s’alza freddo o per il cielo che scende caldo. Incombe su questo cristallo meraviglioso in mezzo alle Alpi, un azzurro zaffiro.
2.758 metri sul livello del mare. Duemilasettecentocinquantotto metri sul livello del mare. Lo devo ripetere.
La pelle d’oca, dicevo. I brividi d’emozione mi perseguitano mentre scendiamo, sempre in due, a ritroso verso l’Umbrail, dove l’autista, il gelataio e la spedizione verso Marte ci stanno aspettando da tempo, impazienti. Il razzo ha già acceso i reattori.
È ora di scendere in Svizzera. Ci aspettano tornanti sinuosi e qualche chilometro di sterrato, in mezzo al bosco.
I copertoncini affondano di poco, il fondo della strada bianca è compatto e solido, imperturbabile dalle piogge dei giorni prima. L’asfalto italiano non mette nostalgia. Questo sterrato è tenuto come Fulcrum  comanda.
la spedizione, disciplinata e in fila indiana, guadagna gli ultimi chilometri di discesa fino a Santa Maria. Da qui a Prato ci aspettano ancora 20 km, lungo il biscione nero-bitume di Mustair. Si passa in rassegna Malles e poi sarà di nuovo Stelvio. In apnea.
Capite bene. Dopo esserci appena stati, sulla luna, si vuol tornare subito. Mica possiamo stare con i piedi per terra, noialtri.
(CONTINUA)

Foto: a cura dell'”Autista”, Nicola Acquaviva.