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Una lancia per Lance.

2 ottobre. Hope rides again.
Sì, io la spezzo. ‘Frega niente.
Non so e non lo voglio sapere come ha fatto quello che ha fatto. I lati oscuri ci sono e nessuno, qui, ha intenzione di metterli in dubbio.
Resta il fatto che ciò che ha fatto Lance Armstrong dal 2 ottobre 1996 ad oggi è imponente. Spettacolare. Un monumento alla voglia di vivere. Piaccia o non piaccia. E, a me, piace.
L’ho riscoperto oggi questo maledetto yankee, dopo averlo poco, molto poco amato: forse persino odiato. Dopo aver visto uno sbruffone, un piccolo boss mafioso nel gruppo, uno che “Pantani al Ventoux lo lascio vincere”. Ho cominciato a leggere ciò che aveva da dire, ossessivamente 24 ore su 24 su twitter; ho cominciato a vederlo tornare sui pedali, alla tenera età di 38 anni, non si sa perché, a vederlo fare una crono nel fuoco di un luglio francese contro quelli che sono oggi i figli dei suoi avversari di allora.
Così, incuriosito, mi sono fermato. Ho sospeso il giudizio. Ho cominciato a domandarmi chi era davvero Lance Armstrong. Al di là degli stereotipi.
Bene. Ho scoperto uno che si ferma a parlare con gli amatori lungo le mulattiere disperse del Colorado. Uno che prende e apre un negozio di biciclette che sembra fatto apposta per me, uno che deve montare in sella ogni giorno che il buon Dio manda in terra perché se no sta male. Uno che oggi fa il gregario e recupera borracce dalle ammiraglie, uno che ci prova comunque, anche se poi arriva ultimo o trentottesimo, come i suoi anni, fa poca differenza. Uno che “Ma chi te lo fa fare, Lance?”. Uno che non vince più, e forse, proprio per questo, è diventato, davvero, un grande. Uno che pedala davvero. Uno come me.
Livestrong, Lance.