Shamani.

 

Sant'Antonio Colombo da Caleppio.

Antonio Colombo. My personal mentore.

 

Ognuno ha il suo. Il mio l’ho conosicuto su per giù un anno fa. E non l’ho ancora tradito. Anzi. Settimana scorsa sono andato a trovarlo.
Quella che segue, come promesso, è la storia di due chiacchiere con lui, tra un Nescaffè e un galletta Mulino Bianco.
Si ringraziano per la partecipazione, in ordine sparso: la Milano da bere, Mike Giant, Fellini, la California, i tatuaggi, le giacche lise, l’acciaio Inox e, of course, Fausto Coppi e i tornanti dello Stelvio.

– Negli ultimi anni, la bicicletta sta diventando sempre di più un oggetto non solo ecologico e comodo, ma anche “desiderabile”, cioè attraente e trendy. Secondo te perché?

– Palle. Non siamo ancora in pieno boom: me ne accorgo dal fatto che, quando mi fanno questa domanda, dò oggi le stesse risposte che davo 30 anni fa. Fine anni Settanta-inizio Ottanta, per intenderci: erano i vagiti della “Milano da bere” e di “Uomo Vogue”. Lo dicono che c’è il boom della bicicletta, ma non è vero. Diciamo che è di moda dirlo: il vuoto e abusatissimo vocabolo “lifestyle” è arrivato, ahimè, ad appropriarsi anche della bicicletta e a coprire con la sua patina inconsistente anche i valori buoni, come quello delle due ruote a noi care.
Ma le potenzialità espressive della bicicletta sono ancora enormi e non sfruttate. Certo, le “fisse” hanno dato un contributo, segnando in qualche modo una svolta: la fissa è una bicicletta diversa dalle altre. Un po’ eversiva, un po’ retrò, sicuramente non per tutti. Nata dal basso, dalla creatività della urban culture californiana tutta skate, surf e graffiti, ma non solo. Ah, vi do un’anticipazione: l’artista-tatuatore californiano Mike Giant realizzerà la grafica del prossimo catalogo Cinelli. In più, c’è da dire che l’universo “fisso” ha saputo sfruttare, come nessun altro, le infinite vie della rete. That’s all.

– Da questo punto di vista, Cinelli ha da sempre dato una valenza fondamentale al design e all’estetica: potremmo dire che è il vostro marchio di fabbrica (sto pensando alle vostre “collaborazioni” con Keith Haring, Mario Schifano ecc). Descrivici, se c’è, la “Cinelli-filosofia” attraverso la vostra storia.

– La bici è una scatola cinese. E a me piace usarla in tutte le sue valenze, con messaggi provocatorii, in tutti i sensi. La bici raccoglie adepti in modo disparato colpendo immaginari apparentemente inconciliabili, come in una enorme ruota felliniana: ci stanno dentro tutti. Nessuno eslcuso. Nessun altro mezzo ci riesce.

– Parlaci della recente collaborazione Cinelli – RVCA (giovane azienda d’abbigliamento surf e skate americana) e i 13 artisti di strada che hanno reinterpretato il leggendario telaio Cinelli Supercorsa.

– RCVA è cultura californiana allo stato puro: legatissima all’immaginario surf, skate e bike. Eppure è una cultura che voleva “tornare indietro”. Per andare avanti.
Io intravedo una sorta di “Black & white heritage” in questi movimenti magmatici: una ricerca di una memoria in bianco e nero, fatta di vecchie foto di ciclisti che si abbeverano, di macchie di grasso sul volto, di tornanti infangati. La cultura RCVA, e più in generale quella californiana, hanno ricercato queste origini. E le hanno trovate solo in alcuni marchi. Cinelli, ovviamente, in testa.
Mentre le major sono state percepite come la coca cola…
Da qui, rinasce la cultura del “custom”: telai taylor made, in acciaio ognuno diverso dall’altro, esemplari unici e irripetibili. I nostri.

– Potremmo segnalare due “tendenze” in questa rinascita della bici: le bici a scatto fisso per uso urbano e la riscoperta delle biciclette di lusso un po’ vintage, quelle tutte freni a bacchetta e selle Brooks. Sei d’accordo?

– Ci sono degli archetipi che dominano le mode. Il fisso tatuato e surfer e il dandy inglese con la giacchetta lisa. La bicicletta ha la possibilità di divenire complice di questi archetipi.
Uno dei valori di oggi è la “semplicità”: la fissa è andata incontro a questa esigenza. Niente pignoni, uno solo rapporto, appunto, fisso. Così è nato un mondo che qualche anno fa non c’era. In un futuro dove il petrolio sarà sempre meno, la creatività è destinata a essere incanalata sempre di più nella bicicletta. Più il mondo va male, più la bicicletta va meglio.

– Spesso, in Italia, nonostante la sua nobile storia nel settore, manca una “Cultura del design”: il bello viene ancora percepito – soprattutto per gli oggetti di uso comune come una bicicletta per spostarsi in città – come qualcosa di secondario rispetto alla funzione.
Secondo te perché?

– C’è tanto falso design in giro. Anche intorno alla bicicletta.
A Milano, c’è poi una “spettacolarizzazione” del design: i parrucchieri si chiamano “Hair stylist”, i fornai si definiscono “Arte del pane”. 
Tutto questo è falso design.
La bicicletta, oggi, certo, sta dicendo la sua. Ed è interessante che voglia dire la sua: oggi c’è ricerca estetica, una volta non c’era. E la bicicletta in questo senso interpreta una “necessità sociale” di semplicità.
Ma molto spesso lo fa ancora troppo rozzamente.
A questo proposito, lasciami spendere due parole sui nomi: dare dei nomi alle cose è infatti, in sé, a mio avviso, un atto progettuale. È parte integrante del design stesso dell’oggetto che si vuole mettere al mondo.
Ora, dare un nome brutto, o, peggio, volgare, a qualcosa, come una bici per esempio, contribuisce a renderlo un oggetto di cattivo design. E questo è un vizio tipicamente italico: quello di voler dare il giusto premio, magari anche in un progetto in sé interessante, verso la battuta che arriva volgarmente detta, alla X-factor-Grande Fratello.

Vai Antonio. Sei tutti noi.