ottobre 06

Lo squalo che mangiava le foglie

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A Crepuscolar Ride.
Siamo in “modalità Lombardia: on”.
Mancano poche ore, e la “classica delle foglie morte” – una delle mie gare preferite in assoluto – andrà in onda.
È una corsa un po’ malinconica e crepuscolare, ma anche maledettamente romantica. Chiude tradizionalmente la stagione e, oltre che di foglie – in realtà sempre più vive che morte  – racconta di giornate corte, fughe andate a vuoto, scatti imprevisti, eroismi in discesa. Sei ore quasi mai calme e solo raramente tiepide, cieli che via via si fanno lattiginosi e ciclisti che han voglia di dare l’ultimo assalto ma hanno anche una gran paura di sbagliarla di grosso: scappo via sul Muro? Mi fotteranno in volata all’arrivo.
Il Lombardia è una gara insidiosa, impervia, cattiva d’animo. Tanta salita eppure si va sempre velocissimi. È una delle 5 “classiche monumento”: le altre sono Milano-Sanremo, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix Liegi-Bastogne-Liegi. Gare severe ma diversissime tra loro. Ognuna con un suo carattere, una sua personalità. Esattamente come i ciclisti.
Là c’è il pavé, qui si guazza invece nell’altimetria.
Il Lombardia, come lo chiamano gli inglesi, può essere spietato. Quando affronti una salita e pensi che poi avrai davanti solo discesa, sai che è soltanto una dolce bugia dettata dalle gambe stanche più che dalla mente lucida.
Il Giro di Lombardia ha poi un’altra caratteristica peculiare. Un percorso che – a differenza che per le altre 4 sorelle, dove al massimo c’è qualche piccola variazione – cambia negli anni. Non è mai perfettamente fisso, aggiunge una salita di qua, dopo averla tolta di là. Sceglie Como, oppure Lecco, o Bergamo a volte va a scovare antichi interstizi noti solo ai più incalliti amatori milanesi (categoria alla quale mi fregio di appartenere). È un piccolo Giro d’Italia in miniatura. 
Chi vincerà quest’anno? Non lo so, e non me ne importa neppure molto.
Per me il Lombardia ha già vinto. Perché è una corsa bella dentro.
Sabato perciò andrà come deve andare.
Un sassolino nella scarpa però ora me lo devo levare.
Prendo spunto da un “non banale” errore compiuto l’altro giorno da uno dei massimi quotidiani italiani, secondo il quale – cito –  Felice Gimondi sarebbe stato “l’unico ciclista italiano ad aver vinto tutte e 3 le grandi corse a tappe: Giro, Vuelta e Tour “.
Ci siamo dimenticati Nibali. Ci siamo dimenticati di come vince, di come torna su quando credevi fosse invece andato giù. Di come vinse – dopo Vuelta, Giro e Tour – anche il Lombardia, soltanto due anni fa, con una discesa strepitosa.
Nibali non è il campione classico, non vince come, dove e quando vorresti tu. Vince come, quando e dove vuole lui, dove non te l’aspetti. Vincenzo non è Marco, non è Fausto, non è Felice. Vincenzo è Vincenzo.
Te lo ritrovi a mangiarsi in un sol boccone i pesci più piccoli in discesa, magari saltando una pozza d’acqua, o magari galleggiando elegante su un pavé francecse  madido di fango.
Nibali non è un personaggio, Nibali è un carattere. Non sono la stessa cosa.
Ve lo ricordo con quella che reputo sia a tutt’oggi la sua impresa psicologicamente più bella, quella che ne ha svelato – forse a lui per primo – la sua vera natura e la sua indole : il Giro d’Italia del 2016 . Colle dell’Agnello.
Direttamente da “Il carattere del ciclista” (versione digitale),  ecco a voi “L’irriducibile: Vincenzo Nibali”.
Il sassolino è tolto, ora potete andare. Ci vediamo domenica. Buon Lombardia.

Irriducibilmente Nibali.
Venerdì 27 maggio. Colle dell’Agnello, la cima Coppi di questo Giro d’Italia, ovvero il punto più alto toccato dalla corsa. Sulla montagna l’aria è rarefatta e i muri di neve, a mano a mano che salite, si fanno sempre più spessi e imponenti. Da chiedersi se non vi crolleranno addosso. Da domandarsi se troverete mai la forza di uscirne vivi da quella vetta sinistra e vagamente inquietante. Siete astronauti sulla superficie incerta e magnifica di un altro pianeta. Un pianeta al confine tra l’Italia e la Francia. Il tuo ghigno aumenta tornante dopo tornante.
(…) Sul Colle dell’Agnello si danno appuntamento ogni anno nutriti gruppi di appassionati di astronomia per scrutare il cielo e perdercisi dentro. Vengono qui per questo motivo, mica per altro. È un luogo mistico il Colle dell’Agnello, dove si perde l’orientamento facilmente: qui sei in Italia, lì, a due metri soltanto, sei in Francia. Praticamente non sei da nessuna parte. Le bussole qui non servono a niente. Qui si viene a perdersi per ritrovarsi. Se no, meglio stare a casa.
Il posto migliore dove scrollarsi tutto di dosso. Ci pensi tu a farlo. Metro di salita dopo metro di salita, fino ai fatidici 2.748 metri sul livello del mare, cominci a svestirti del tuo vecchio io. Qualche anziano stregone o sciamano sapeva che saresti passato di qua oggi e ha cominciato a preparare l’incantesimo, il rito di iniziazione. Sei in Francia ma per te è come essere in Sicilia, sull’Etna, tra lapilli di lava e fuoco. Qui si forgiano uomini nuovi. Eroi ostinati e irriducibili.
I tuoi occhi sono rossi, sei l’unico che non ha paura di niente. Esteban, Alejandro e soprattutto Steven sono in soggezione. Loro mica si devono trasformare, loro sanno già chi sono. Tu no. Tu non sei più tu. È ora di affondare i denti nelle carni della preda. E così fai, feroce quale sei, dietro quell’apparente scorza da timido e insicuro. Inizia la discesa e imponi un ritmo infernale. Sei già un altro. Steven la paga subito. L’olandese non è avvezzo alle discese spericolate, non sa come prendere quei tornanti persi nel , non sa come tagliare quell’aria rarefatta che sa di sacrifici e tormenti, non sa che tu da ragazzino ti scapicollavi per i boschi in mountain bike e ora te lo stai ricordando. Abbassa la guardia e bum! Va a sbattere conto la muraglia bianca che costeggia la carreggiata. La neve schizza via come il ghiaccio tritato per fare una granita. Un volo e un capitombolo da spavento, con la bici che salta in aria quasi come se una mina fosse stata nascosta nel terreno. Per l’olandese è l’inizio della fine. Steven si rialza, ma è stordito, spaventato a morte. Non è più lui. Esattamente come capita a te. Tu sei già sparito nel tuo mantello nuovo.
Dopo la lunga discesa dal Colle dell’Agnello, c’è ancora una salita da fare, dovete arrivare a Risoul, una manciata di case e poco più, sospese tra le nuvole francesi. L’arrivo di tappa oggi è previsto qui, oltre confine. Di quest’ultima ascesa ne fai un sol boccone, chilometro dopo chilometro, staccando anche Esteban e Alejandro che avevano provato a starti dietro, e andando a riprenderti persino i fuggitivi. Vuoi la tappa, vuoi il Giro, vuoi tutto. In Tv fanno fatica a capire quello che sta accadendo. Di minuto in minuto però tutto si fa improvvisamente chiaro, come la nebbia che si diradava dal Colle dell’Agnello, mentre scendevate: stamattina avevi 4 minuti e 43 secondi di ritardo dalla maglia rosa, ora solo 44 secondi. Il leader della classifica è cambiato, ora è Esteban Chaves, che ha scavalcato Steven, entrato in crisi dopo la caduta e con una costola rotta. Per te cambia poco. Tu stai combattendo contro te stesso. Non contro di loro.
A Risoul ci arrivi per primo. Vinci la tappa e riapri il Giro d’Italia. Superi la linea del traguardo e ti accasci sul manubrio. Piangi. Finalmente. Svuoti tutto, si vede solo la tua schiena scossa da vibrazioni continue, che non riesci a controllare. Non la smetti più. È una scena che, da sola, vale il Giro.
E adesso? Adesso cosa diavolo vuoi che siano 44 secondi, dopo che sei stato nel deserto e hai parlato col serpente come Zarathustra? Dopo che in cima al Colle dell’Agnello hai cambiato pelle e ti sei fatto leone?
Il giorno successivo va in scena l’ultimo atto. È la ventesima tappa, l’ultima con salite dove puoi attaccare ancora e recuperare quei 44 secondi. Poi non ce ne saranno più.
Sono in programma tre colli alpini di prima categoria, da fare venire il mal di gambe solo a pensarci. Col de Vars, Col de la Bonette, Colle della Lombarda, più i due chilometri finali che portano al Santuario di Sant’Anna di Vinadio. Dove si compiono i miracoli.
Dalla Francia all’Italia attraverso una meravigliosa cavalcata, di quelle da rimanere incollati alla tv dal primo all’ultimo minuto.
Ancora una volta aspetti di essere in alto, di vedere le nuvole alzarsi dalla roccia fredda e muta, prima di azzannare la preda. Quasi volessi essere sicuro di non avere altri animali attorno con cui spartirla. È tua e soltanto tua.
Sulla salita del Colle della Lombarda imponi una progressione disarmante che frantuma i tuoi inseguitori. Prima Chaves e poi anche Valverde che aveva provato a contenerti. La sicurezza e l’eleganza della tua pedalata, regolare e impetuosa, lasciano attoniti. È evidente che sei un altro. Del Nibali di qualche giorno fa, di quello di Andalo qui non c’è traccia. Questo qui è un altro. Arrivato dal deserto o sceso dalla luna, passato attraverso emozioni antiche e primitive, resuscitato al mondo dopo essere caduto agli inferi. Vincere non è che una logica conseguenza.
E così quando arrivi in cima e tagli il traguardo, sai già che hai vinto il Giro d’Italia. Non c’è bisogno di contare i secondi per capirlo, anche se l’altoparlante continua a scandirli uno dopo l’altro, anche se le cuffie della tua dannata radiolina continuano a gracchiarli metallicamente. Il ritardo di Chaves è incolmabile ormai.
Il vero avversario, lo sai, oggi non era lui. Era un altro. Lo hai lasciato soltanto qualche chilometro più indietro, pietrificato. Indossava una maglia azzurra con il tricolore al centro, si dice corresse per una squadra kazaka e che alla fine non fosse poi questo grande campione.

(Da “L’irriducibile: Vincenzo Nibali” – Il carattere del ciclista, ebook Utet 2016)

Foto credits: Paolo Ciaberta