
8 Volte 9 Colli.
Dilidin -Dilidon: Sveglia!
Avrebbe detto Mister Ranieri. Perché io dormo proprio. E della grossa.
Mi sono dimenticato di tutto. Tutto!
Domenica, ore 4 del mattino.
La sveglia del garmin da polso suona più crudele di quella del lunedì. Dove cavolo sono? Chi è, cosa… O, santo cielo, la Novecolli! La Novecolli! Mi ero dimenticato.
Nel sonno avevo azzerato tutto. Non ero in grado di fare niente.
L’appuntamento con gli altri è giù, al piano di sotto dell’Hotel Apollo di Valverde di Cesenatico. Nell’inframezzato dove si servono robuste colazioni energetiche. Dalle 3:30 è un viavai di camerieri e tacchette di ciclisti e sbattono rumorose sul pavimento. Come ho fatto a non sentire niente?
Ci pensavo, sono 8 anni che faccio la Novecolli. Un rituale irrinunciabile. Una celebrazione religiosa praticamente. Da quando vado in bicicletta, non ne ho saltata una.
Il tempo di capire non c’è, vado in bagno, mi lavo la faccia. Occhiaia come se Bud Spencer mi avesse ridisegnato i connotati.
210 km e 3800 metri di dislivello, sicuri sicuri?
Colazione, mal di gambe. Faccio il medio?
Pastasciutta? Non ne ho voglia. Quest’anno, ho deciso, sfaterò un mito.
Fette di crostata a gogò, quindi.
5:22, accendo il garmin, l’altro quello della bici. E inizio, in trance a pedalare.
Mi sembra di pedalare da una vita, ho mal di anche, di polpacci, persino di stinchi. E non ho ancora fatto niente. Vado contro vento al buio. C’è la luna in mezzo al cielo e qualche cane che latra in lontananza, lassù sui colli.
5:30. Sono in griglia. Blu. La terza in ordine di partenza.
6:00. Parte la prima
6:07. Parte la seconda.
6:15. Partiamo noi.
Mi aspetto un avvio a tuono, ma rimango deluso. Non tocchiamo nemmeno i 40 all’ora. Di solito qui si va molto più veloce. Mistero.
Sento un doloretto all’interno coscia sinistra, martoriata da mille battaglie, tra cui due maratone a piedi quest’anno. Giusto per non farsi mancare niente.
Ho la sensazione, come dire, che non sarà una grande giornata.
Sono le 7, ma mi sembra già mezzogiorno. Sono fottuto.
Arriva il “Polenta”, il primo dei 9 colli. Lo faccio senza strafare, con la sensazione costante di andare su male, incartato e fuori forma. Faccio il “Pieve di Rivoschio”, il secondo, che va anche peggio. Basta, mi ritiro. O, peggio ancora, faccio medio. Un’onta.
Tento uno scatto tanto per saggiare le gambe e urlare contro il destino, ma mi sento come Nibali nel tappone di Corvara. Un fuoco di paglia.
Ciola, Barbotto, Tiffi. Ma vada via il c…
Faccio male anche il “Ciola”, il terzo colle. Accidenti, in realtà, mi sto sbagliando in pieno: la traccia strava mi dirà (ma ancora non posso saperlo) che avrò fatto il mio tempo “personale” su ognuna delle 9 salite. Dalla prima all’ultima.
E poi arriva il “Barbotto”, il quarto. Lo spauracchio della Novecolli: i neofiti li vedi subito perché vanno nel panico. Cominciano ad alleggerire il rapporto anche su pendenze del 2%. Sbuffano, barcollano, sembra si preparino al martirio del Mortirolo.
In realtà, il Barbotto, quello vero, sono solo 2 chilometri scarsi con pendenze appena sopra il 10%. Più che fattibili.
Comincio a sentirmi bene. Oh, che bello!
Siamo quasi a metà percorso, 90 km. No, il medio col “c” che lo faccio.
Mangio una banana, e raggiungo presto il bivio. Medio, 130 km, di qua; lungo, 210 km, di là. Vado ovviamente “di là”. Oltre le colonne d’Ercole.’Fanculo tutto.
Mi sento proprio bene, mulino attorno alle 100 pedalate al minuto nel fondovalle. E il leone che c’è in me comincia a bussare alla porta del bradipo: fammi largo, arrivo io.
Supero dei drappelli di disperati in crisi e faccio il quinto colle, il “Monte Tiffi” detto anche “carogna”, lascio a voi capire perché, e mi appresto al sesto. La velocità media è salita improvvisamente. Grande, jack. Spezzagli le reni a questi quattro colli romagnoli che ti mancano.
Il senso del Perticara per la neve.
Arriva il sesto colle, il “Perticara”. 9 km. Più lungo degli altri, e a gradoni. Quando ci si arriva in cima, mi sembra sempre di essere in alta montagna. Mai capito perché. Mi aspetto di vedere chiazze di neve sui campi e mucche al pascolo. Come sul Pordoi. In realtà non siamo nemmeno a 700 m. sul livello del mare.
Per arrivare in cima al Perticara devi faticare. Non trovi mai il ritmo, acceleri e rallenti di continuo, pare di fare le scale, tipo villetta sobborgo londinese: ripida e insidiosa. Devi continuamente rilanciare. Ripenso a cosa mi ha raccontato una volta quel diavolo di Francesco Moser: quando pioveva andava ad allenarsi sotto le gallerie del Lago di Garda, dalle parti di Malcesine. Le faceva e rifaceva allo sfinimento, finché fuori non tornava il sole. Quando arrivava in fondo ad una, mica usciva. Si fermava, voltava la bici e tornava indietro, “rilanciando” da fermo. Un esercizio utilissimo. Mannaggia a me che non sono andato a rilanciare sotto i tunnel della Stazione Centrale a Milano. Avrei cambiato il mio destino.
E mentre ci penso, arrivo in cima anche al Perticara. -3.
Stavolta mi fermo al ristoro: pizzette, pipì e via. Mi aspetta il “Pugliano” o “Maiolo”, il colle numero 7.
Praticamente la copia carbone del precedente. Ancora 9 km, ancora a gradini, ancora verso l’alto. Ancora caldo. Grondo, ho sudato tutto il sudabile: fortuna che nel pacco gara c’era il mitico e immancabile campione di detersivo “Nuncas”. Trovo il tempo di vedermi già cacciarlo in lavatrice assieme al bucato dei bimbi e gridare al miracolo.
Ma bando alle ciance. Dentro di me sento una forza nuova. La pedalata si fa più rotonda, indurisco, spingo rapporti più lunghi come se fosse corti. Come se, colle dopo colle, diventassi sempre più forte, più compatto, più sicuro. E forse è proprio così.
Comincio ad accarezzare il sogno che si chiama “PB”.
Quasi quasi metto il turbo.
Ma è qui che viene il bello. Il gran finale. Mai andato così forte.
Faccio il fondovalle tra il settimo e l’ottavo colle a rotta di collo. Mi inserisco in un trenino che pare un Freccia Rossa. L’aria nei capelli, il cuore che batte regolare e sereno. Le gambe baciate dal sole e, finalmente, dal caldo estivo. Ossì che sto bene. Sto benissimo. Mai stato meglio in vita mia. “I’m still alive” mi urla nelle orecchie Mr. Eddie Vedder. Sento che dal cilindro porterebbe uscire la giornata che non t’aspetti. Sono il bianconiglio nel paese delle meraviglie, sotto il braccio di Alice. Vado via anche sugli ultimi due colli che è un piacere. Persino l’ultimo, il maledetto “Gorolo” mi sembra “quasi” una passeggiata (pendenze al 17%). Fa caldo, in cima riempio un’ultima volta la borraccia ma senza perder troppo tempo che se no perdo il “tempo” e mando tutto a ramengo. La giornata tira fuori l’agonista che c’è in te, c’è niente da fare. E il ciclismo è una bellissima sfida. Contro un solo avversario, immaginario o reale che sia. Un tipo tosto e coriaceo a dire la verità, proprio come Hinault. Uno che spesso reputi, sopravvalutandolo, troppo forte, magari imbattibile. Te stesso.
Faccio gli ultimi 20 chilometri, in modalità “velocità smodata”. Trovo il gruppo giusto, e ci infilo. Mi lascio trasportare da questo fiume in piena che si chiama “scia”. Un’ultima curva, un ultimo cavalcavia, un’ultima, bellissima, balla di fieno anti-cadute. È fatta. Il mare urla, mosso e increspato dal vento del meriggio. Taglio il traguardo e come un’epifania vedo Ferdinando, detto “Paolo”, Pantani, il papà di Marco nostro che è nei cieli. Gli stringo la mano in preda all’euforia endorfinica, come fosse un vecchio amico.
Vorrei stringerlo in un abbraccio e dirgli tutto. Sto fermo e non gli dico niente.
A volte è più bello così.
Ciao guys, Novecolli con PB in saccoccia.