Da zero a Nove Colli in un minuto.

Sembra ieri che andavo sul Naviglio.

Ci vuole un solo minuto per pensarla.
Un’impresa non ha bisogno di tanto tempo. Solo di un minuto.
Basta quell’istante – nemmeno un minuto – in cui tra voi e voi, vi direte: la faccio. E l’avrete già fatta.
Vi guarderete negli occhi allo specchio. E vi direte: io vado a fare il lungo della Novecolli.
Anche se non avete quei km nelle gambe e quelle ore sulla sella. Non conta.
Conta solo quel minuto.
Poi vi direte: ho fatto una cazzata.
Ci sta, fa parte del gioco.
Ma volete mettere, amici miei, che bello?
Che brivido lungo la schiena quando piegherete (perché so che lo farete, dopo aver letto questo post) a destra per il percorso “lungo” di 200 km?
Non che non volete mettere.
E allora state a sentire, che ho da raccontarvi (a puntate, sono pigro e lento, ultimamente, lo so) una bella storia.
Mamma, ho fatto 205 km!
Questa la prima cosa che mi viene da dire, appena sceso di bici sul lungomare Carducci di Cesenatico. Non me ne capacito.
Me l’avessero detto quando ero piccolino non c’avrei mai creduto. 205 km, capite? 10 ore di bicicletta, ci siete? 3.840 metri di dislvello, siete ancora lì?
Io no.
No che non ci sono. Sono rimasto sotto le mie prestazioni. Vedete cari miei, perdonatemi: io esco due volte a settimana, di cui una sola nella quale faccio salita e almeno 100 km, l’altra di pura pianura, di pura corsa, tra un accompagnamento a scuola dei miei bambini e una riunione. Con doccia a rotta di collo (e, a volte, lo ammetto, nemmeno quella).
Ebbene, e io, proprio questo, ti vado a fare 205 km e sto in bicicletta con culo su una SMP Evolution con carro in carbonio per 10 ore? Dieci fottute ore, duecentocinque fottuti chilometri. Mi spiego bene?
No perché prima che vi racconti la mia Novecolli (mia del Pitone del Gratosoglio, e di Pietrone da piazzale lavater), dovete capire questo. Questa impossibilità di capire come diavolo ho fatto a fare 205 km e 3.850 metri di dislivello. Me lo spiegassero a me.
Ci pensavo, al lungo, ovvio che ci pensavo, dopo due anni di medio. Ma era un pensarci da pazzo. Ma questo sport è così: devi buttare il cuore oltre l’ostacolo per dargli senso. Devi andare a prendere le tue paure e superare le colonne d’ercole, vere o presunte che siano.
“Laddove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva”. E io ho bisogno di sentir pericolo per sentirmi vivo.
Sono lucido mentre lo dico. E so anche bene che fare una granfondo in bicicletta, anche di 205 km, non è andare in guerra, dunque stiamo parlando di divertimento e passione. Intendiamoci.
Eppure anche nel campo del divertimento e della passione, entra in gioco quel fattore “X”, di difficile analisi fenomenologica, che è iul confrontarsi con i propri limiti e i propri timori. C’è quel “chiudi gli occhi e osa” che è il sale delle emozioni.
Non sono una persona “stabile”: ho sempre avuto bisogno di darmi un senso. Che volete che ci faccia.
Vallo a spiegare al vicino perché per sentirti te stessso e ritrovarti hai bisogno di una salita alpina e di una discesa a perdifiato in un campo di girasoli, come dice il buon Lance. Perché devi maltrattarti per volerti bene. Perché devi osare ogni volta di più per guidarti attraverso le tue emozioni. Il vicino non capirà. Dunque è inutile farlo.
In fondo, contiamo noi, conta il nostro umore, il nostro modo di essere nella vita. E se a farti stare a posto con il mondo è una Novecolli di 205 km, allora, perdio, falla. Non hai scelta.
Che si fotta, il vicino.
CONTINUA…

PS: Questo post lo dedico a mio nonno Bruno, che se sapesse del “so neutt” si commuoverebbe anche un po’. Lo so.