Novecolli. Regia: Federico Fellini.

Una ruota felliniana marcia compatta.

Polenta. Una ruota felliniana marcia compatta.

Ci fosse stato, Fellini ci avrebbe fatto un film. Ne sono certo. 
Ore 6:20, Cesenatico. La griglia arancio, la mia, è piena come un otre. Dialetti di tutti i tipi: inlfessi valdostanti, triestini, salernitani, trapenesi. Tedeschi, inglesi, australiani, serbo-croati. Ce n’è per tutti i gusti. Un’enorme ruota caleidoscopica da Amarcord, come avrebbe detto il mio mentore, il bell’Antonio Colombo. Donne, uomini, e niente bambini. E’ un’emozione per cuori forti questa Novecolli. L’elicottero volteggia, fa il pelo alla segnaletica verticale della statale Adriatica. Il “Porto Canale” pare un budello stipato in ogni centimetro quadrato da magliette colorate e caschi hi-tech. La “Tabaccaia” è sul cavalcavia, con il suo senso prosperoso, ad applaudire. Sono le 6:30, fa un caldo porco e ho davanti 130 km nonché 1.900 m. di dislivello.
Arrivano gli ultimi, alla spiccolata: tutto e pronto. La prima griglia è partita: le altre seguiranno, con un intervallo di due minuti dalla partenza dell’ultimo concorrente della precedente. Alle 6:40 qualcosa si muove: stiamo partendo. 
Con nello stomaco un etto di spaghetti e tanto coraggio, mi dirigo sotto il gonfiabile della partenza. Ingrano il “cinquanta”. Il chip comincia a contare. Mario al mio fianco.
Il fiume degli undicimila – tanti saranno, se non di più, i partecipanti – si allunga come un drago cinese, dai mille colori, per le terre romagnole, grondanti Pantani. In tutte le sue, infinite sfumature.
Mentre vado a tutta, per i primi 30 kmi di pianura, mi guardo attorno, penso a questa terra, allegra, spensierata e alla tragedia che le si è consumata dentro. Intestina. Penso a lui, al suo sguardo un po’ imbranato e insicuro, e alla sua rivincita personale sui pedali. Dal Bertinoro a Alpe d’Huez. Che effetto avrà potuto fare su questa gente?
Si procede compatti, solo qualche minimo sfilacciamento. Alle varie rotonde, si rilancia sui pedali. I primi 30 km, come detto, vanno via così. In un batter ‘di 50X13. 
Arriva dunque il “Polenta”, la prima salita. Facile. Sulla carta. Si trasforma, invece, in una pericolosissima gimcana per non cadere, in mezzo ai migliaia che salgono. E questa sarà la costante di tutta la Novecolli. Salire, gomito a gomito con il vicino, spostarsi e infilarsi nei pertugi tra i concorrenti, cercando di non “toccarsi dentro”.
Mario lo perdo così: al primo incolonnamento in salita.
Torno a parlare con un leccese, poi con un romano, poi con un perugino. Si sale come anime in pena. Penitenti di una penitenza che ci si è auto-inflitti per passione. Il dio “dislivello”.  
Si scende dal Polenta che è tutto un su e giù o “mangia e bevi”, come si dice in gergo. Nulla è regolare nel terreno romagnolo. Si va sempre in alto e in basso. E, quando credi che il peggio sia finito, ecco una rasoiata al 14% a salutarti con il sorriso che va da un bordo carreggiata all’altro.
Prima del “Pieve di Rivoschio”, il secondo colle, c’è il rifornimento idrico. Ed è il benvenuto: ho già finito una borraccia come niente. Poi si torna a salire.  E poi a scendere. Infine, il “Pieve” comincia. Facile. Ma difficile. Ricominica la gimcana e le pendenze a gradoni. I tratti più cattivi pettinano tranquillamente il 10%. In cima, il ristoro. 
Ingollo due micro-pezzi di torta e una mezza banana: l’obiettivo delle 5 ore mi attanaglia. Mi getto sulla picchiata. Ma anche qui, la discesa non è continua. Ma inframmezzata da nuovi, ahimè,  improvvisi, strappetti in salita. Non me ne accorgo, ma sto accumulando acido lattico come se piovesse.
Si piomba infine su Linaro e si affronta il “Ciola”, terzo colle. Frullo il 34 con alta frequenza di pedalata. Ci dò dentro e zigzago come una gazzella tra le anime in pena che non ne voglion sapere di salire. Vedo pochi superarmi. Di quei pochi, mi butto nella scia. Sfioro decine di manubri, trentine di pedivelle, quarantine di copertoncini. Un brivido lungo la schiena. 
Alla vetta, affronto la impegnativa discesa verso il bellissimo borgo di Mercato Saraceno, dove attacca il maledetto “Barbotto”. Lo spauracchio di tutta la Novecolli, il diavolo della riviera, il Mortirolo in salsa romagnola. La temperatura è folle. E non c’è un metro di ombra. Tutto il Barbotto è rigorosamente al sole, sotto 37 gradi. I contadini, mossi a pietà, anziché dar acqua alle rape, innaffiano gli atleti. Non serve a niente: dopo un secondo sei asciutto come un pampers baby dry. O meglio, torni madido. Di sudore. 
Le gocce colano dritte sul manubrio come piogga. Il Barbotto non è che 6 km, ma è durissimo. Quasi tutto attorno al 10%, con un intero km, il finale, al 18% (La Gazzetta, che sabato dedicava una pagina alla Novecolli, parla di un fantozziano km e mezzo al 20%!!). Gli ultimi 300 m., di suddetto chilometro, sono un tripudio di endorfine e di brividi che da soli valgono tutto il weekend (levataccia e spaghetti inclusi): due ali di folla, transennate, tanto di speaker che incita e altroparlanti che mandano una surreale “Paradise city” dei Guns & Roses. La folla di acclama, sono più i ciclisti che salgono a piedi di quelli sui pedali. Io sono sui pedali. Mi esalto, attacco: strafaccio. Stacco il GPM che mi sento Pantani sul Mortirolo. A casa sua. Ho i brividi. 
In cima, al ristoro, non mi fermo, stupidamente. Tiro dritto: vedo la fine. E qui ribecco Mario, come due scampati a un bombardamento nucleare. Quello del Barbotto, sui nostri quadricipiti.
E, infatti, di lì a poco avverto un crampo lancinante alla coscia destra. Appena la strada inclina.
Sto calmo, una volta sarei andato nel panico, innesto il fido 26 di dietro e alzo al massimo la frequenza di pedalata. Mario lo riperdo. La gamba, invece, la ritrovo.
Errore tutto mio: bevuto poco, mangiato altrettanto, con 35 gradi all’ombra. Da coglioni. 
Bevo forsennatamente, pedalando in agilità per qualche chilometro e piano piano recupero la gamba. Ma il tempo, un buon 8-10 minuti, l’ho perso.
Nel finale tento di rifarmi: la picchiata su Cesenatico la faccio per bene, in presa bassa, e i 20 km finali li faccio di nuovo a tutta. In gruppo.
Fino al curvone finale su via Carducci, il mitico lungomare di Cesenatico. Piombo sul traguardo. 5:20′. 
Due bionde modelle, svedesi o romagnole fa poca differenza, mi mettono al collo la medaglia della Novecolli. Io sorrido imabarazzato come Pantani alla sua prima maglia rosa.  Tra due ali di folla, metto la medaglia al collo di un figlio, il casco sulla testa dell’altro. Mario, 5:10′, fa lo stesso con i suoi. Manca solo la “Gradisca” a darci il bacio della buonanotte.