Di-pendenza 3

33 tornanti disegnati da Leonardo. L’apoteosi della salita. Droga allo stato puro. Singore e signori, Il Pordoi.


Passo Pordoi (da Arabba)
– 5 luglio 2008.

scalato il 5 luglio 2008.

Passo Pordoi, da Arabba: scalato il 5 luglio 2008.

Oggi sono uscito in bici, una settimana esatta dopo il Sella Ronda. Incastonati come diamanti tra le tacchette Keo delle scarpe, frammenti di terriccio. Ho deciso di non toglierli e di non pulire le scarpe da questa polvere di stelle. Almeno finché non se ne andrà da sola, cascando un po’ qua un po’ là, lungo la mia strada.
E’ la terra del Pordoi.
E’ sabato, sono da poco passate le undici. Giunto in cima, mi piazzo sotto il cartello marrone che segnala l’altitudine del passo, pronto a essere immortalato nella più classica jpg che ogni scalatore che si rispetti annovera e conserva per tutta una vita.
Ogni passo, uno scalpo.
A bordo carreggiata, in terra c’è una leggera fanghiglia. Sento le scarpe affondarci dolcemente. La pioggia caduta i giorni prima, oppure qualche deposito d’acqua proveniente da una delle millanta cascatelle che cadono dal massiccio roccioso del Sella, ha inumidito il terreno.
Già, le cascatelle. Uno spettacolo nello spettacolo. Pedali, ti alzi fuorisella, e guardi al tuo fianco. La roccia gialla e verticale, tagliata e levigata da infiniti rivoli trasparenti. Li noti dopo un po’. Non al primo colpo. Dopo due o tre sguardi più attenti. La maggior parte si trovano tra Il Sella e il Gardena. Ma cominciano già prima: in cima al Pordoi. A 2.239 metri sul livello del mare.
Sono dieci, venti, trenta piccoli ruscelletti, come rubinetti nella roccia.
Lì il massiccio hegeliano del Sass Pordoi si staglia in tutta la sua monumentalità. Ti schiaccia, ti sbatte per terra, ti rivolta come un panno sporco.
Al suo cospetto, tu, piccolo ciclista, conti un cazzo.
Mentre ci sali, no. Sembra accoglierti. I tornanti ti accompagnano dolcemente nell’ascesa. Paiono, tanto son perfetti, disegnati nel rinascimento. Mano mano che ne fai uno, sotto ti appaiono quelli che hai fatto fino a quel punto, sopra quelli che hai da fare: sensazione difficilemnte provabile sulle “normali” salite under 2000. Vedi le moto, i camper, le auto sopra di te. E sotto di te. Sono hotwheels che rotolano avanti e indietro.
Il Pordoi sale da Arabba. Appena scesi dal Campolongo. E’ il secondo passo di giornata. Non vado in ordine cronlogico, lo sapete. Vado per impressioni. Metope sul mio personale frontone di un’esperienza che mi ha cambiato la vita.
Solo il Grand Canyon, in Arizona, nove ore di fuso orario da qui, mi ha dato e detto tanto, paesaggisticamente parlando. La roccia nell’azzurro del cielo di una giornata perfetta. Le sfumature del giallo che prima nemmeno conoscevi. Il giallo ha mille varianti, eppure un solo nome per dirle. Dicono (oddio: in realtà è una bufala) che gli eschimesi conoscano e adoperino oltre venti termini per dire “neve”. Noi ne abbiamo uno solo. Ecco, girando intorno al Sella, capisco che la parola “giallo” è relativa, generica, vuota. Quanti gialli ci sono sul Sella? C’è quello dell’ombra, c’è quello con il riflesso del ghiacciaio, c’è quello con la sabbia calcarea depositata, c’è quello con le pietre incastonate, c’è quello bagnato dalle cascate, che si scurisce.
Salgo da Arabba. Penso a quante volte ho immaginato quest’anno a questo momento. A quanti modi ho usato, persino in sogno, per figurarmi questa salita, mitica, unica, coppiana. Già, è la salita di Coppi, come ebbi modo di dire: in cima c’è la stele dedicata alle sue imprese. Quasi tutte passate di qui.
So che sono 33 tornanti. Gli anni di Cristo.
Eppure scorrono via veloci, ho quasi voglia di rallentare. A ogni curva, la mattonella, solida e squadrata, a bordo strada, con il numero e l’altitudine raggiunta. Una certezza che dà concretezza ulteriore all’impresa. Ricordo il numero 7, il numero 15 e il 28, distintamente. Non chiedetemi perché.
E poi lo spettacolo: a metà salita, al mio fianco, nemmeno troppo lontana, si staglia chiara e indelebile una sagoma familiare, perché letta su libri, vista in tv, immaginata per anni.
La Marmolada. Un enorme letto di neve e ghiaccio, leggermente incliato verso valle. La Maromolada, ragazzi. Quella del Fedaia. E’ lì, a un passo. Le Dolomiti sono tutte vicine. E’ un luna park per scalatori. Un eden per ciclisti.
Con la fatica fatta su due ruote, mosse da una catena e un pignone, e forse solo in questo modo, impari davvero a essere in armonia con la natura. Che vuol dire una cosa sola: non dar fastidio. Ella ti accoglierà a braccia più che aperte.
Non fai rumore, non sei impetuoso, eppure ci sei. E lei, la natura, ti ripaga. Sei come un animale che fa parte dell’ecosistema. Un suo figlio.
I tornanti si allargano. La vetta è vicina. La pendenza, da Arabba, non è praticamente mai scesa. Ma nemmeno mai salita. Nesuuna variazione significativa. Sempre intorno al 7%. Con una costanza disarmante. Forse solo qualche piccolo strappo al 10-12%. Ma non me ne accorgo. La sensazione che hai, scalando il Pordoi e i suoi 33 toranti, è quella dell’entelechia della salita. Il Pordoi è la salita nella sua forma perftetta. E’ come sempre vorresti che una salita fosse. Paesaggisticamente, e come tipo di difficoltà e sforzo. Regolare, lunga, costante, che si apre alla vista pian piano, fino alla vetta, mozzafiato. Lasciando chi sale, senza parole.
Al 29° tornante, supero un  altro ciclista – lo rincontretò e lo ri-passerò sul Sella, qualche minuto più tardi: devo aspettare Davide in vetta al Pordoi, e dunque lasciarmi superare –  lo saluto. Sul volto, una smorfia di fatica. Sono 10 km di salita, il Pordoi da Arabba: si sentono.
Io però – giuro – non li sento. Sono narcotizzato, salgo autistico. Le gambe mulinano come sufi. Gli occhi sono persi nel trance Zen del paesaggio e dell’esperienza “salita”. Alterno tratti seduto, ad altri fuorisella: lo faccio – su consiglio di Cassani –  per variare i muscoli delle gambe usati e permettere all’acido lattico di venir smaltito più rapidamente.
Ho il sorriso sulle labbra  e la pelle d’oca. Posso dire di essere felice. Qui, a casa mia. Dove non sono mai stato.
33° tornante. La vetta si apre in tutto il suo splendore. E’ “lo” scollinamento. L’idea platonica dello “scollinare”. L’essenza del valico. La strada spiana e si apre a un mare di biciclette, moto, turisti. Non danno fastidio, sono discreti. Lontano, da una parte, la Marmolada e la valle di Arabba. Dall’altra, la mole poderosa delle tre cime del Sella e giù, a valle, i boschi rigogliosi, verso Canazei.
Mi fermo, mi faccio scattare la foto che sempre ora rimarrà con me. Ci penso. So, a modo mio, di star facendo oggi la mia storia di ciclista. Penso a Mario, che non è potuto venire. So, perché lo so, che mio nonno se la sta ghignando. L’ha messa nel culo a tutti, lui, con questo nipote che settantrè anni dopo di lui, ha azzerato l’orologio e detto che le montagne in bicicletta sono la cosa più bella del mondo.
Le scarpette affondano, la macchina del tempo si ferma, cerco una banana – in vano – nel rifugio, indosso la mantellina e, aspettando Davide, mi preparo al Sella.
Credo proprio che la terra sulle scarpe, se non la levo con un po’ di Chante Clair, difficilmente se ne andrà.